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Che cosa ci andiamo a fare in Burundi ?!

A cura di A. Rita Pierantozzi

 

Che cosa ci andiamo a fare in Burundi?...

Quando ho sentito questa frase per la prima volta non ci potevo credere.

Non so neanche dire cosa ho pensato. Semplicemente ho fatto fatica a comprendere il significato delle parole pronunciate. Non ho risposto.

Poi la frase stessa mi è stata ripetuta ancora una volta.

Poi….Mi si è accesa una lampadina….e, di colpo, mi era chiaro il senso di quello che sentivo, ma che non volevo assolutamente ascoltare.

CHE COSA CI ANDIAMO A FARE IN BURUNDI?!!!

Il mio pessimo carattere e la mia ormai celebre capacità di irritarmi all'istante hanno risposto in maniera istantanea e….Tanti saluti alla modulazione che cerco faticosamente di applicare nella mia vita e nel mio modo di comportarmi.

I fusibili sono saltati e rischiavo di fondere tanta era la rabbia provata a causa di quel semplice capoverso. Ho blaterato senza senso per circa dieci minuti, inveendo con arroganza come solo io so fare contro quei superficiali che erano in grado di partorire simili scemenze. Per fortuna poi, dopo un congruo periodo di decompressione, la mia scalcinata reazione (che cosa ho da urlare tanto poi non si sa) ha lascito il posto alla riflessione. E, al posto della mia rabbia male indirizzata e peggio espressa, è nata una fredda indignazione, tanto più duratura quanto più efficace di far nascere pensieri di critica costruttiva.

Che cosa ci andiamo a fare in Burundi….che cosa si può rispondere a chi esprime un simile pensiero?

In prima analisi, si può forse rispondere nella maniera più semplice: che cosa credi ci si possa andare a fare in un paese dove è negato alle persone il semplice diritto alla sopravvivenza?

Che cosa ci si può andare a fare in un posto dove la gente tira la vita con i denti? Dove, se

va a fuoco la tua casa puoi solo rimanere a guardare le fiamme, perché manca tutto e soprattutto l'acqua e le strutture per spegnere il fuoco? Un paese dove i bimbi sono costretti a raccogliere e trasportare carichi pesantissimi di letame da vendere per raccattare due soldi per mangiare?

Che cosa ci si può andare a fare in un posto così? La lista è lunga. Si può anche tentare di stilarla e di ragionarci su, ma a cosa servirebbe?

L'unica cosa che mi viene da dire è che, chiunque rinunci a due settimane del suo tempo per impiegarle in un posto come Mivo, che siano Luisa Barbieri e Paolo Mongiorgi o l'associazione Nadir o chiunque altro, meriti rispetto e ammirazione.

Questo come ragionamento generale.

Andando più nello specifico: l'Associazione Nadir sta in piedi per miracolo, per opera di persone che spendono tutte le loro energie (e che per inciso, le stanno anche esaurendo) per la realizzazione di progetti che sono indirizzati, caso strano, a noi.

Noi inteso come pazienti, o ex tali, noi come membri storici dello storico gruppo della Cicamica o come nuovi arrivati alla ricerca di un luogo per affrontare i propri problemi di compulsioni varie.

Noi inteso come fruitori fortunati di occasioni che perdiamo regolarmente.

Il Burundi non è un progetto strampalato costruito da persone malate di buonismo o desiderose di diventare i salvatori del mondo.

Il progetto della missione in Africa è un'occasione, l'ennesima, che ci viene offerta per smetterla di concentrarci sul nostro conclamato e sfrenato narcisismo e piantarla una volta per tutte di passare il tempo a guardare il nostro seppur splendido ombelico e accorgerci che esistono realtà capaci di insegnarci il valore reale da dare alla vita.

Il Burundi è uno stimolo forte per dedicare mezz'ora del nostro prezioso tempo alla visione d'immagini che ci disturbano e che non vorremmo vedere, perché turbano un fragile equilibrio esistenziale che faticosamente teniamo in piedi pur di non uscire da noi stessi.

In Burundi dovremmo andare tutti.

Non per i burundesi, che pure ne avrebbero un gran bisogno; non per Luisa, che invece non ne trae nessun beneficio primario tranne forse la percezione che forse cominciamo a capire qualcosa, ma per noi stessi.

Per fare qualcosa per noi.

Per farci del bene.

Per trarne quel beneficio che viene solamente dall'essere stati capaci di guardare al di là del nostro naso alla ricerca di difficili confronti con le diversità.

Io voglio andare in Burundi, e non so neanche a fare cosa di preciso.

Chissà quale delle mie più o meno utili capacità può essere sfruttata in una simile situazione.

Chissà se ne ho anche solo una che possa risultare adatta.

Voglio andarci perché voglio vedere con i miei occhi, voglio capire, voglio imparare.

Imparare non so neanch'io cosa.

Imparare forse che quando si è impegnati a sopravvivere, quando non si ha nulla, non necessariamente si è infelici.

Non necessariamente ci si sente depressi e schiacciati da una vita che non ci offre nulla al di là dell'essere vivi.

Il senso d'insoddisfazione, di vuoto, che tante persone provano non è appannaggio dei paesi del terzo mondo.

E' un privilegio dell'occidente economicamente e culturalmente sviluppato. Forse è questa una delle cose che vorrei imparare facendo un'esperienza in missione: vorrei acquisire le armi per combattere la mia incapacità di vivere e in cambio dare quel poco che potrò, forse, essere in grado di offrire.

Non mi sembra uno scambio da poco.

Apprezzare quello che viviamo giorno per giorno, quello che abbiamo, le possibilità che ci vengono date, la bellezza del mondo che ci circonda, gli affetti e le amicizie.

Questo è un grande traguardo.

Viviamo in un bel mondo.

Nonostante i guerrafondai, i presidenti operai, i governi impazziti e l'egoismo imperante, lo schifo della politica e lo schifo dei media, io mi ritengo fortunata di occupare il posto che occupo nel mio piccolo ingranaggio.

Io non voglio cambiare il mondo. Voglio tentare di cambiare un pezzetto del mio mondo.

E' già sufficiente. Non è un progetto ambizioso. E' alla mia portata. E' alla portata di tutti.

Non voglio neanche dimenticare che io non solo posso mangiare tutti i giorni, ma posso scegliere cosa mangiare e addirittura se mangiare o no.

Io non solo posso lavorare e guadagnarmi da vivere ma mi posso lussuosamente permettere di scegliere il tipo di lavoro che voglio fare.

Io non solo posso studiare ma posso scegliere cosa studiare.

Sono padrona del mio tempo e della mia vita. Posso scegliere.

Posso farlo perché il mio diritto alla sopravvivenza è garantito e i miei diritti civili salvaguardati e se penso di avere il diritto di averne altri, posso esprimere la mia opinione e lottare per ottenerli.

Non sono discriminata, almeno non ufficialmente, per il mio colore di pelle, per la mia religione o per le mie convinzioni politiche.

Sono discriminata per le mie scelte sessuali ma sono anche ottimista e credo che sia solo una questione di tempo affinché le cose cambino.

La scelta è sempre il fulcro di tutto.

Scegliamo di essere più realisti, meno superficiali.

Cerchiamo di non fare domande stupide tipo: “Che cosa ci andiamo a fare in Burundi?”

Ma riflettiamo sul senso delle cose e cerchiamo di apprezzare le preziose iniziative che si protendono verso di noi in slanci disinteressati.

Scegliamo di impiegare il tempo del quale siamo padroni facendo anche cose che non avremmo mai pensato di fare.

Il che non comprende necessariamente un viaggio a Mivo, ma, forse, più semplicemente un passaggio in associazione per chiedere se, per caso, non ci sia da lavare il pavimento.

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