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Buone notizie
L'oro di Gelli alle vittime del 2 agosto 1980 e alle madri di Plaza de Mayo
Non capita spesso, nella realtà di tutti i giorni, che il “cattivo” abbia la giusta punizione, ma non stupisce che l'abbia avuta da due giudici.
La storia è questa: i giudici Gerardo Colombo e Giuliano Turone indagavano sul “caso Sindona”.
Nel marzo del 1981 scoprirono il Piano Rinascita e le liste della P2.
Nella stessa valigia furono ritrovati dei falsi documenti fabbricati appositamente per provare l'esistenza in Svizzera di conti segreti a nome di Turone, di Viola (altro giudice) e di Colombo.
Documenti questi che avrebbero dovuto provare la corruttibilità dei giudici medesimi.
La causa contro Gelli per calunnia fu intentata d'Ufficio dalla Procura di Roma.
Intanto, nella perquisizione di Villa Wanda, di proprietà di Gelli, furono rinvenuti, nelle fioriere, 13 lingotti d'oro pari a 1300 grammi.
Dopo 25 anni e vari gradi di giudizio, i giudici Colombo e Turone hanno ottenuto il risarcimento per calunnia: i 13 lingotti d'oro. Questa somma, però, è stata da loro devoluta alle Madri di Plaza de Mayo e ai famigliari delle vittime del 2 agosto.
Dando prova di un innato senso di giustizia, i giudici Colombo e Turone hanno devoluto l'intero importo del risarcimento a chi più di tutti ha subito le “trame oscure” di questo Maestro “Venerabile”, che venerabile non è.
La mano di Gelli e della P2 si cela, infatti, dietro alle stragi italiane come è provata la protezione che egli ha avuto da parte del regime argentino, che per tanti anni ha insanguinato quel Paese.
Questa notizia non ha avuto sulla stampa ed in TV il risalto che avrebbe meritato.
Infatti, in un Paese, come è il nostro, dove vengono premiati i “furbi” e i “furbetti”, chi fa il proprio lavoro onestamente, senza volerne trarre profitto, ma rispondendo solo ad un “dovere di lavoro” non viene mai valorizzato come meriterebbe.
Ritengo invece giusto che venga sottolineato questo fatto sulla nostra rivista per dimostrare a tutti i delusi, ma soprattutto ai giovani che gli onesti ci sono, esistono e sono tanti. E, soprattutto, possono rappresentare un esempio per tutti noi ...
Ivana Bettini
DUE SENTENZE
In questi giorni sono uscite due sentenze significative per due opposti motivi: la sentenza sull'abbattimento del DC9 a Ustica che si è conclusa senza colpevoli e la sentenza per la strage di Marzabotto che ha visto la condanna di diversi militari delle SS giudicati colpevoli.
Entrambe le sentenze lasciano l'amaro in bocca.
Partiamo da Marzabotto, dai luoghi dell'eccidio: sono luoghi “sospesi”.
Lì il tempo s'è fermato. Tutto è rimasto come allora.
Povere case, ormai diroccate, la chiesetta con in piedi solo l'altare e una parte del pavimento ancora intatto.
Una croce a ricordo di Don Fornasini.
Solo un piccolo cimitero con le croci di ferro.
Il monumento, a ricordo della strage, eretto anni dopo.
Nessuno, nessuno ha voluto calpestare il sangue che qui è stato versato.
Nessuno, nessuno ha voluto ricostruire: questo è un luogo della memoria e quindi deve rimanere a monito alle generazioni future.
Solo i monaci di Don Rossetti ne percorrono i sentieri, con le loro preghiere e con i rintocchi delle campane.
Solo chi va a vedere i luoghi dell'eccidio percorre le campagne e le stradine.
E' una terra di silenzio e di raccoglimento…
Sapere che in questi giorni, dopo 62 anni da quei fatti, è uscita la sentenza che ha condannato diversi militari delle SS, lascia la bocca amara. Innanzitutto perché sono stati condannati degli ottuagenari che non faranno quindi neppure un giorno di prigione, vista l'età, e perché queste persone hanno continuato in questi 62 anni a condurre una vita “normale” nella convinzione che quello che era successo a Marzabotto non aveva alcuna importanza perché loro “avevano solo obbedito agli ordini” e quelle efferatezze non le avevano compiute loro (“Ma le sembra che io possa uccidere donne e bambini?”)… Sì, la normalità del “male”, la banalità del “Non avrei potuto rifiutarmi di uccidere”.
Banali giovani e feroci assassini allora e banali vecchi ipocriti, strafottenti e ancora feroci nella loro strafottenza.
Come altri vecchi: come quei generali giudicati innocenti nella sentenza del DC9 ITAVIA abbattuto sui cieli di Ustica.
“Sono in pace con la mia coscienza” così ha risposto un generale ad un giornalista che gli chiedeva se, in coscienza, non si sentisse colpevole.
Stessa ipocrisia e strafottenza.
La banalità del MALE non si smentisce mai.
Mai un guizzo di coscienza in questi vegliardi, mai nulla che li faccia dubitare di aver sbagliato, mai il coraggio di affrontare le proprie responsabilità.
E le vittime non hanno alcun diritto: neppure quello di veder riconosciute le modalità di un disastro che ormai sono chiare, manca solo l'ufficialità di una sentenza: quella sera era in corso una battaglia tra aerei americani e/o francesi e aerei libici e l'aereo civile italiano è stato un danno collaterale di questa guerra non dichiarata nei cieli italiani.
Per questo motivo chiediamo, assieme alla Provincia di Bologna, al Presidente del Consiglio Romano Prodi di “non lasciare nulla di intentato, anche attraverso una richiesta esplicita alla NATO e al Governo libico, di superare, a 26 anni di distanza, i segreti di Stato, per arrivare a riaprire l'inchiesta e fare così piena luce e giustizia su questa drammatica vicenda.”
E speriamo di non dover attendere 62 anni per sapere la verità!
Ivana Bettini

(da AltreMenti.org - Informazione e controinformazione libere
http://www.altrementi.org )
Il 27 giugno 1980, alle ore 21 circa, i radar di Fiumicino cessavano bruscamente di registrare le battute dell'Itavia 870, un Dc-9 in volo tra Bologna e Palermo con a bordo 81 persone. L'aereo sembrava scomparso, ma dopo alcune ore spese in frenetiche quanto disordinate ricerche, si raggiungeva la certezza che era caduto in mare a nord di Ustica. Non c'erano superstiti. Quel momento segnava l'inizio di uno di quei misteri italiani - come l'attentato in piazza Fontana o la strage di Bologna - che sono sempre rimasti colpevolmente irrisolti.
[ La caduta dell Dc-9 :: La cronaca di questi 24 anni :: Le false rivendicazioni :: Le varie ipotesi sulla strage :: Le morti sospette :: I tracciati radar e le conversazioni telefoniche :: La dichiarazione del Presidente dell'Associazione parenti delle vittime ]
Sono le 21,00 circa del 27 giugno 1980 quando un DC9 della società Itavia, decollato da Bologna in direzione Palermo, scompare dalle rilevazioni radar, inabissandosi fra le isole di Ponza e Ustica. La tragedia, nella quale trovano la morte 81 persone fra passeggeri ed equipaggio, viene inizialmente spiegata con un cedimento strutturale del velivolo; una tesi che verrà sostenuta ufficialmente per molto tempo, anche di fronte a fatti e testimonianze che col tempo andranno a disegnare uno scenario molto più inquietante. Uno scenario che verrà compiutamente descritto solo nel 1999 dal Giudice Rosario Priore, che scriverà: "l'incidente al DC9 è occorso a seguito di azione militare di intercettamento. Il DC9 è stato abbattuto, è stata spezzata la vita a 81 cittadini innocenti con un'azione, che è stata propriamente atto di guerra, guerra di fatto e non dichiarata, operazione di polizia internazionale coperta contro il nostro Paese, di cui sono stati violati i confini e i diritti. Nessuno ha dato la minima spiegazione di quanto è avvenuto".Una descrizione semplice ed esaustiva del quadro generale, ma che purtroppo non chiarisce i dettagli su “chi” provocò l'abbattimento dell'aereo, né sul “perché” dell'abbattimento. E di questa mancata chiarezza sono stati accusati diversi esponenti dell'Aeronautica Militare Italiana, che avrebbero taciuto informazioni in loro possesso o ne avrebbero fornite altre – errate – alle autorità. Ed è proprio questa mancanza di informazioni ad aver impedito al Paese di conoscere la verità sulla strage di Ustica: chi abbattè un nostro aereo civile, nel corso di una battaglia aerea svoltasi nei nostri cieli senza che nessuno abbia mai dato una spiegazione?A causa di questi depistaggi ed insabbiamenti non si è mai arrivati ad un processo a carico dei responsabili della strage. Si è però arrivati ad un processo a carico di 4 generali dell'Aeronautica Militare proprio per quelle azioni di depistaggio. Un processo che si è concluso nell'aprile 2004 con una sentenza che può sembrare deludente, a 24 anni dalla tragedia di Ustica, una sentenza in buona parte frutto dell'impossibilità di racchiudere in un dibattimento processuale, passato tanto tempo, una vicenda tanto complessa; una sentenza invece che conferma le accuse e lo scenario di guerra che aveva tracciato il giudice Priore nella sua ordinanza.
Infatti a Lamberto Bartolucci, Capo di Stato Maggiore dell'Aeronautica del tempo, viene riconosciuto di aver omesso di riferire alle autorita' politiche i risultati dell'analisi dei tracciati radar di Fiumicino/Ciampino – conosciuti nell'immediatezza della tragedia – e ancora a Lamberto Bartolucci e Franco Ferri di aver fornito informazioni errate alle autorita' politiche escludendo il possibile coinvolgimento di altri aerei militari nella caduta dell'aereo civile nell'informativa scritta del 20 dicembre 1980. Questo è il chiaro riconoscimento sia dello scenario complessivo sia del fatto che le autorità militari hanno ostacolato la ricerca della verità, qualunque essa fosse.È una sentenza importante che va attentamente considerata e che non giustifica assolutamente i canti di gioia che qualcuno, soprattutto in ambiente militare, ha voluto intonare. In altre parole questa sentenza ci dice che i vertici militari hanno potuto esaminare immediatamente i dati radaristici e venire a conoscenza in tempo reale di tutte quelle tracce di presenze aeree, evidenze che non manifestavano certo un cielo sgombro intorno al volo del DC9, nè assenza totale di traffici militari prima e dopo l'incidente. Poi, dopo sei mesi dalla notte della tragedia, in una comunicazione ufficiale al Governo, lo Stato Maggiore dell'Aeronautica (che ha avuto nel frattempo ampie possibilità di operare indagini e controlli approfonditi) persiste nel comunicare notizie non corrispondenti al vero e in grado di deviare il corso delle indagini, perché escludendo ogni altra possibilità fa apparire il cedimento strutturale l'unica causa possibile della tragedia.Dunque i vertici dell'Aeronautica Militare hanno operato per nascondere la verità sulla vicenda di Ustica. Questo è il senso profondo della recente sentenza della corte d'Assise di Roma che riconosce i gen. Bartolucci e Ferri, al vertice dell'Arma al momento della tragedia, responsabili di alto tradimento con atti diretti a turbare le attribuzioni del Governo, pur mandandoli assolti perché nel frattempo (sono passati da allora 24 anni) il reato è andato prescritto.Quanto stabilito dalla corte d'Assise di Roma torna a dare a tutti nuove responsabilità e rende evidente che la Magistratrura non può da sola rispondere alla esigenza di verità che questa vicenda ancora impone.La vicenda di Ustica deve dunque rimanere, alla luce anche di questa sentenza, una grande questione di dignità nazionale, perché un aereo civile è stato abbattuto, 81 cittadini innocenti hanno perso la vita, la nostra sovranità è stata sfregiata e nessuno ci ha dato spiegazioni.

Questo l'elenco delle 81 vittime, tra passeggeri e personale di bordo, del volo Itavia 870:
Cinzia Andres, Luigi Andres, Francesco Baiamonte, Paola Bonati, Alberto Bonfietti, Alberto Bosco, Maria Vincenza Calderone, Giuseppe Cammarota, Arnaldo Campanini, Antonio Candia, Antonella Cappellini, Giovanni Cerami, Maria Grazia Croce, Francesca D'Alfonso, Salvatore D'Alfonso, Sebastiano D'Alfonso, Michele Davì, Giuseppe Calogero De Ciccio, Rosa De Dominicis, Elvira De Lisi, Francesco Di Natale, Antonella Diodato, Giuseppe Diodato, Vincenzo Diodato, Giacomo Filippi, Enzo Fontana, Vito Fontana, Carmela Fullone, Rosario Fullone, Vito Gallo, Domenico Gatti, Guelfo Gherardi, Antonino Greco, Berta Gruber, Andrea Guarano, Vincenzo Guardi, Giacomo Guerino, Graziella Guerra, Rita Guzzo, Giuseppe La China, Gaetano La Rocca, Paolo Licata, Maria Rosaria Liotta, Francesca Lupo, Giovanna Lupo, Giuseppe Manitta, Claudio Marchese, Daniela Marfisi, Tiziana Marfisi, Erica Mazzel, Rita Mazzel, Maria Assunta Mignani, Annino Molteni, Paolo Morici, Guglielmo Norritto, Lorenzo Ongari, Paola Papi, Alessandra Parisi, Carlo Parrinello, Francesca Parrinello, Anna Paola Pellicciani, Antonella Pinocchio, Giovanni Pinocchio, Gaetano Prestileo, Andrea Reina, Giulio Reina, Costanzo Ronchini, Marianna Siracusa, Maria Elena Speciale, Giuliana Superchi, Antonio Torres, Giulia Maria Concetta Tripliciano, Pierpaolo Ugolini, Daniela Valentini, Giuseppe Valenza, Massimo Venturi, Marco Volanti, Maria Volpe, Alessandro Zanetti, Emanuele Zanetti, Nicola Zanetti.

Fonti: www.arci.it ; www.stragi80.it ; www.clarence .com
 
 
Dossier: La strage di Marzabotto
reder150.jpg (36558 byte)a cura di Arrigo Petacco
La strage di Marzabotto del 29 settembre 1944 fu la tragica tappa finale di una «marcia della morte» che era iniziata in Versilia. L'esercito alleato indugiava davanti alla Linea Gotica e il maresciallo Albert Kesserling, per proteggersi dall'«incubo» dei partigiani, aveva ordinato di fare «terra bruciata» alle sue spalle.
Kesserling fu il mandante di una strage che nessun'altra superò per dimensioni e per ferocia e che assunse simbolicamente il nome di Marzabotto anche se i paesi colpiti furono molti di più.
L'esecutore si chiamava Walter Reder. Era un maggiore delle SS soprannominato «il monco» perché aveva lasciato l'avambraccio sinistro a Charkov, sul fronte orientale. Kesserling lo aveva scelto perché considerato uno «specialista» in materia.
Al comando del 16° Panzergrenadier «Reichsfuhrer», il «monco» iniziò il 12 agosto una marcia che lo porterà dalla Versilia alla Lunigiana e al Bolognese lasciando dietro di sé una scia insanguinata di tremila corpi straziati: uomini, donne, vecchi e bambini.
In Lunigiana si erano uniti alle SS anche elementi delle Brigate nere di Carrara e, con l'aiuto dei collaborazionisti in camicia nera, Reder continuò a seminare morte. Gragnola, Monzone, Santa Lucia, Vinca: fu un susseguirsi di stragi immotivate. Nella zona non c'erano partigiani: lo dirà anche la sentenza di condanna di Reder: «Non c'erano combattenti. Nei dirupi intorno al paese c'era soltanto povera gente terrorizzata...».
A fine settembre il «monco» si spinse in Emilia ai piedi del monte Sole dove si trovava la brigata partigiana «Stella Rossa». Per tre giorni, a Marzabotto, Grizzana e Vado di Monzuno, Reder compì la più tremenda delle sue rappresaglie. In località Caviglia i nazisti irruppero nella chiesa dove don Ubaldo Marchioni aveva radunato i fedeli per recitare il rosario. Furono tutti sterminati a colpi di mitraglia e bombe a mano.
Nella frazione di Castellano fu uccisa una donna coi suoi sette figli, a Tagliadazza furono fucilati undici donne e otto bambini, a Caprara vennero rastrellati e uccisi 108 abitanti compresa l'intera famiglia di Antonio Tonelli (15 componenti di cui 10 bambini).
A Marzabotto furono anche distrutti 800 appartamenti, una cartiera, un risificio, quindici strade, sette ponti, cinque scuole, undici cimiteri, nove chiese e cinque oratori. Infine, la morte nascosta: prima di andarsene Reder fece disseminare il territorio di mine che continuarono a uccidere fino al 1966 altre 55 persone. Complessivamente, le vittime di Marzabotto, Grizzano e Vado di Monzuno furono 1.830. Fra i caduti, 95 avevano meno di sedici anni, 110 ne avevano meno di dieci, 22 meno di due anni, 8 di un anno e quindici meno di un anno. Il più giovane si chiamava Walter Cardi: era nato da due settimane.
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1944, i funerali delle vittime
Dopo la liberazione Reder, che era riuscito a raggiungere la Baviera, fu catturato dagli americani. Estradato in Italia fu processato dal Tribunale militare di Bologna nel 1951 e condannato all'ergastolo. Dopo molti anni trascorsi nel penitenziario di Gaeta fu graziato per intercessione del governo austriaco. Morì pochi anni dopo in Austria senza mai essere sfiorato dall'ombra del rimorso.
(in il Resto del Carlino, 12 aprile 2002)
I sopravvissuti
A Marzabotto gli unici sopravvissuti furono due bambini, Fernando Piretti, di otto anni, e Paolo Rossi di sei, e una donna, Antonietta Benni, maestra d'asilo delle Orsoline. Per 33 ore finse di essere stata abbattuta anche lei e quando finalmente potè alzarsi, commentò ad alta voce: «Tutti morti, la mia mamma, la mia zia, la mia nonna Rosina, la mia nonna Giovanna, il mio fratellino... Tutti morti». Anche a Marzabotto alcune SS parlavano un italiano perfetto: erano italiani.

I collaborazionisti italiani
Per i fatti di Marzabotto ci fu anche una coda processuale italiana. Prima della condanna del maggiore Reder, nel 1946, la corte d'assise di Brescia aveva giudicato Lorenzo Mingardi e Giovanni Quadri, due repubblichini (il primo, reggente del Fascio di Marzabotto, nonché commissario prefettizio durante la carneficina), per collaborazione, omicidio, incendio e devastazione. Mingardi ebbe la pena di morte, poi trasformata in ergastolo. Il secondo, 30 anni, poi ridotti a dieci anni e otto mesi. Tutti e due furono successivamente liberati per amnistia.
pallanimred.gif (323 byte)La strage di Marzabotto, la testimonianza di Renato Giorgi (da "Marzabotto parla", Ed. Avanti!, 1955)
pallanimred.gif (323 byte)I responsabili della strage di Marzabotto , di Renato Giorgi (da "Marzabotto parla", Ed. Avanti!, 1955)
pallanimred.gif (323 byte)Marzabotto, «Hanno avuto quel che si meritavano» La testimonianza del nazista Albert Meier (da l'espresso.it)
pallanimred.gif (323 byte)Marzabotto, perché l'eccidio rimase impunito di Mimmo Franzinelli
pallanimred.gif (323 byte)Le stragi nazifasciste in Toscana del 1944 (a cura di Claudio Biscarini)
pallanimred.gif (323 byte)L'eccidio di S. Anna di Stazzema (12 agosto 1944)
pallanimred.gif (323 byte)Le stragi tedesche in Italia
info.gif (232 byte)attualità:
pallanimred.gif (323 byte)L'armadio della vergogna: i fascicoli insabbiati sulle stragi nazifasciste (l'espresso, settembre 2001)
pallanimred.gif (323 byte)Inchiesta tedesca sugli ex nazisti accusati della strage di Marzabotto e di Sant'Anna di Stazzema (aprile 2002)
pallanimred.gif (323 byte)Ciampi: delitti indescrivibili vogliamo siano puniti (Corriere della Sera, 18 aprile 2002)
pallanimred.gif (323 byte)Il testo del discorso di scuse per la strage di Marzabotto pronunciato dal presidente tedesco Rau (17 aprile 2002)
pallanimred.gif (323 byte)Oltre 50 anni dopo, le scuse della Germania per Marzabotto (aprile 2002)
pallanimred.gif (323 byte)I sopravvissuti: "Non perdoneremo mai quegli assassini" (aprile 2002)
info.gif (232 byte)documenti:
pallanimred.gif (323 byte)Stragi naziste . Il documento della Commissione Stragi della Camera dei Deputati sul rinvenimento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti (dal sito dell'Anpi nazionale).
pallanimred.gif (323 byte)Scene di violenza, rappresaglie e stragi naziste nell'Italia occupata (1943-45) Saggi sugli eccidi compiuti dall'esercito tedesco e dalle SS (link dal sito Iperstoria).
pallanimred.gif (323 byte)Le sentenze di condanna di Theodor Saevecke e di Siegfried Engel (link al sito dell'Ismec di Milano)
http://www.romacivica.net/anpiroma/DOSSIER/Dossier1b.htm
Dossier: La strage di Marzabotto – di Renato Giorgi

II più terribile massacro compiuto dai nazisti nel nostro Paese, uno dei più feroci della loro storia criminale, ebbe luogo dal 29 settembre al primo ottobre 1944. Lo compirono le SS del maggiore Reder, monco di un braccio, già assassino delle povere vittime innocenti di S. Anna di Stazzema, in Versilia. Ora Reder sconta l'ergastolo a Gaeta con il col. Kappler, il boia delle Fosse Ardeatine

Il 29-30 settembre ed il 1° ottobre furono i giorni più terribili della carneficina, ma continuò anche poi; alcuni per ventura scampati, stanno ancora oggi a testimoniare la verità su quanto allora accadde. Dalle strade prossime e dalla ferrovia, molti sono corsi su verso Casaglia, e con la popolazione del luogo si sono rifugiati in chiesa a prendere conforto dalle parole del Parroco, Don Ubaldo Marchioni, che recita il Rosario sull'altare; nella chiesa in penombra, la massa inginocchiata bisbiglia le parole della fede e della speranza. Irrompono i nazisti, una raffica si alza sopra le grida della gente: Don Ubaldo Marchioni cade sulla predella dell'altare, colpito a morte. Tutti gli altri vengono buttati fuori della chiesa e ammassati nel cimitero.
Solo una povera donna non può uscire perché paralizzata alle gambe: Vittoria Nanni. Farà compagnia a Don Marchioni, massacrata nel mezzo della chiesa, mentre disperata urla ed annaspa invano con le braccia per l'aria, inchiodata alla seggiola.
Enrica Ansaloni e Giovanni Bettini sono riusciti non visti a rifugiarsi nel campanile, e forse ancora sperano: sono scovati e massacrati sul posto.
Gli altri, nell'angusto cimitero di montagna che sembra abbandonato perché di rado accade che si debba spalancare il cancello di ferro battuto roso dalla ruggine, stipati ed accavallati contro le lapidi, le croci di legno e le tombe, vengono falciati dalle mitraglie e fatti bersaglio delle bombe a mano. Sono così sterminati 28 nuclei familiari comprendenti 147 persone di cui 60 bambini. Filippo Pirini perde 7 figli, cosi Agostino Daini. Ernesto Gherardi, Luigi Piretti, Giulio Ruggeri, Giuseppe Soldati e Romano Tedeschi soffrono il massacro di tutti i familiari. Sisto Mazzanti e Primo Vannini scompaiono con tutta la famiglia.
Quando, dopo lungo tempo, le bombe naziste hanno finito di dilaniare corpi e sconvolgere tombe, in un punto il rigido ammasso scomposto si muove e s'alza in piedi, illeso, un bimbo di sei anni, della famiglia Tonelli: guarda in giro non vede nazisti e grida a voce alta, verso i morti, incitando a fuggire, a mettersi in salvo. Da sotto il cumulo dei morti esce una fanciulla ferita. Lucia Sabbioni, che prima di allontanarsi invita il Tonelli a seguirla.
"lo resto" risponde il bimbo "voglio morire con la mia mamma!" e si accosta alla madre riversa tra i cadaveri di altri 5 figli. II piccolo Tonelli poco dopo cadrà colpito da una granata.
Dal massacro si salvò anche un'altra giovinetta, Lidia Pirini di 15 anni, che così riferisce la propria tragica avventura. "Era il 29 settembre, alle ore 9 del mattino. Alla notizia dell'arrivo dei nazisti, avevo preferito fuggire a Casaglia, sembrandomi Cerpiano luogo meno sicuro. Abbandonai così i miei familiari, e non ero con loro quando li massacrarono. Infatti mia madre ed una sorella di 12 anni, otto cugini e quattro zie furono massacrati il 29-30 settembre in Cerpiano. Il 29 li ferirono soltanto, il 30 i nazisti tornarono a finirli. Quando a Casaglia fummo convinti che i nazisti stavano per arrivare perché si sentivano gli spari e si vedeva il fumo degli incendi, nessuno sapeva dove andare e cosa fare. Alla fine ci rifugiammo in chiesa, una chiesa abbastanza grande, era piena per metà, e Don Marchioni cominciò a recitare il Rosario. Ho saputo in seguito che lo trovarono ucciso ai piedi dell'altare: allora non me ne accorsi, e adesso riferisco solo quanto ricordo. Quando arrivarono i nazisti io non li vidi, avevo paura a guardarli in faccia. Chiusero la porta della chiesa e dentro tutti urlavano di terrore, specialmente i bambini. Dopo un poco tornarono ad aprire e si misero di qua e di là dalla porta con i mitra puntati.
Ci fecero uscire tutti in mezzo a loro e ci condussero al cimitero: dovettero scardinare il cancello con i fucili perché non riuscivano ad aprirlo. Ci fecero ammucchiare contro la cappella, tra le lapidi e le croci di legno; loro s'erano messi negli angoli e si erano inginocchiati per prendere bene la mira. Avevano mitra e fucili e cominciarono a sparare. Fui colpita da una pallottola di mitra alla coscia destra e caddi svenuta. Quando tornai ad aprire gli occhi, la prima cosa che vidi furono i nazisti che giravano ancora per il cimitero, poi mi accorsi che addosso a me c'erano degli altri, erano morti e non mi potevo muovere; avevo proprio sopra un ragazzo che conoscevo, era rigido e freddo, per fortuna potevo respirare perché la testa restava fuori. Mi accorsi anche del dolore alla coscia, che aumentava sempre più. Mi avevano scheggiato l'osso e non sono mai più riuscita a guarire bene. Anche dopo mesi e anni di cura.
Venne la sera, venne la notte, io stavo sempre là sotto senza rischiare a gridare o lamentarmi, perché avevo paura, anche se il dolore alla coscia si era fatto insopportabile e non riuscivo più a respirare per quelli che mi stavano sopra.
Intorno a me sentivo i lamenti di alcuni feriti, così passò la notte e quasi tutto il giorno del 30. Sul tardo pomeriggio arrivò finalmente un uomo a cercare i familiari: li trovò tutti massacrati e anche una parente ferita che trasportò fuori dal mucchio dei cadaveri. Lo chiamai e mi venne vicino tutti morti mi disse, moglie e 5 figli tutti morti . Mi dimenticai di chiedergli che mi tirasse fuori dalla mia posizione, né a lui venne in mente di farlo. Lo pregai però di tornare ad aiutarmi, dopo aver soccorso la sua parente; promise di farlo, purché non avesse avvertito la presenza dei nazisti. Cosi se ne andò ed io stetti ad aspettare. Verso sera, ci si vedeva ancora, trovai finalmente la forza di decidermi, riuscii a scostarmi i cadaveri di dosso e piano piano mi allontanai dal cimitero .
Ancora sui fatti di Casaglia, parla Elena Ruggeri che vi perdette la madre, una sorella di 16 anni, due zii e due cugini, Augusto di 14 e Lina di 6 anni. "Allora avevo 18 anni- dice- il 29 Settembre alle ore 9 circa arrivarono le S.S. Scappammo in chiesa, dove pensavamo di essere rispettate, tanto più che eravamo tutte donne e bambini perché gli uomini validi erano per le macchie. Il parroco diceva il rosario. Di noi, chi pregava e chi piangeva. Avevamo chiuso la porta della chiesa. I nazisti arrivarono e cominciarono ad urlare e battere con furia contro la porta, credo anzi che la buttarono giù. Quando sentimmo i colpi contro la porta, io, una zia e Giorgio Munarini, un cuginetto di 13 anni che si era aggrappato alle nostre mani, scappammo in sacrestia, di dove, dietro una colonnina di fronte alla porta che dava sulla chiesa, assistemmo a quello che vi accadeva. S'erano messi ai lati della porta della chiesa, facevano uscire tutti e li picchiavano ridendo, mentre passavano in mezzo. Il Parroco che sapeva il tedesco, parlò con 2 di loro, ma dall'espressione della sua faccia noi capivamo che non c'era nulla da fare; continuavano a ridere mostrando il mitra, e, poiché il Parroco insisteva, lo uccisero con una raffica sopra l'altare. Avevo messo una mano sulla bocca di mio cugino Giorgio per paura che gridasse. Ammazzarono anche una vecchia paralitica che non si poteva muovere.
Fuggimmo alla disperata dalla sacrestia nel bosco, lontano un centinaio di metri: ci videro mentre si correva, ci spararono e gettarono anche delle bombe a mano, per fortuna senza colpirci. Nel bosco ci sentimmo più sicuri perché si sapeva che non sarebbero venuti; avevano sempre avuto un terrore folle del bosco; c'era anche un sentiero poco lontano neppure 30 metri, ma non si azzardarono a venire. Dal bosco vedemmo che fecero andar tutti verso il cimitero vicino alla chiesa dopo aver scardinato il cancello a spallate aiutandosi con i fucili. Dal nostro posto vedevamo dentro al cimitero. Dopo un quarto d'ora che li avevano messi contro la cappella, aprirono il fuoco con le mitraglie e gettarono anche delle bombe a mano.
Sparavano molto basso, per colpire i bambini. Appena finito il massacro, se ne andarono. Alle 4 del pomeriggio entrai nel cimitero a cercare i miei, ma non li trovai perché erano sotto il mucchio dei morti. Da un angolo della cappella mi chiamò mia cugina Elide Ruggeri ferita ad un fianco: era con una zia che aveva le gambe fracassate e morì dopo 3 giorni. Giunse intanto mio padre che al mattino s'era rifugiato nella macchia e salvò mia cugina.
Alle ore 11 erano arrivati alcuni partigiani che riuscirono a portare al sicuro dei feriti. 'Noi stemmo nel bosco per 3 giorni e per 3 notti. Mio padre e mio zio furono uccisi tre giorni dopo, anch'essi a Casaglia".
Sempre a Casaglia, in località Casa Beguzzi, le famiglie Armaroli, Benassi, Cerè, Nanni, Paselli e Padriali, ammassate di fronte alla mitraglia cadono in numero di 38 tra cui 6 bambini.
A Caprara di Marzabotto, per timore che taluno potesse fuggire, non volendo d'altra parte perdere tempo in assassinii isolati, i nazisti pensarono di legare le persone man mano rastrellate, e quando il numero era sufficiente, tutto il gruppo era stretto dalla corda, come un covone di grano, e del gruppo mitraglie e bombe a mano facevano strage. Legati assieme da una grossa fune, 16 donne vennero trovate trucidate. Una di esse stringeva ancora al corpo una creaturina di pochi mesi.
Presso la famiglia Moschetti, i nazifascisti arrivarono quando una giovane donna aveva appena dato alla luce la sua creatura, l'aveva baciata sugli occhi e la bocca, stava per adagiarla vicino a sé tra le lenzuola, e dormire, quando si sentirono i nazifascisti sparare e buttare bombe sotto casa. Aiutata dalla madre, la giovane saltò dal letto e cercò scampo, con il neonato stretto tra le braccia. La madre cadde subito, abbattuta sulle scale di casa. La giovane correva, per il campo, insensibile al dolore che ancora le straziava le viscere, correva disperata cercando con gli occhi fra la terra e le cose amiche il rifugio per la vita del figlio, che tra le sue braccia sommesso faceva udire i primi vagiti come un pigolio: la raggiunsero e l'uccisero sotto la vigna, mentre il neonato, buttato in aria, era bersaglio ai loro fucili. Molta della gente di Caprara di Marzabotto viene rastrellata e rinchiusa nella locale osteria dove i nazisti la massacrarono con le bombe a mano e poi la distruggono con i lanciafiamme.
I caduti sono 107 di cui 24 bambini. Cercano di salvarsi Vittorina Venturi e la madre, saltando da una finestra. Invano, entrambe sono subito falciate. Tonelli Antonio perde tutti i 15 componenti la propria famiglia, di cui 10 bambini.
Anche Quirico Lanzarini, Celso Lanzarini e Giulio Ventura vedono massacrata tutta la famiglia, così molti altri di cui mai si poté
avere notizie.
La moglie e 4 figli di Gaetano Venturi cadono nel massacro con la nuora e le nipotine: dopo la liberazione il Ventura ritroverà
anche i cadaveri di altri due figli che aveva creduti salvi.
Leandro Lorenzini racconta di avere allora perduto il padre ed il figlio di 15 anni "Il padre lo uccisero subito, il primo giorno del rastrellamento, il figlio il 10 ottobre, con quelli di S. Giovanni. Particolari della strage e cosa facevano i nazisti, non sono in grado di dire, se con loro c'erano anche quelli della Repubblica Sociale, non lo so: so soltanto che quando mi accorsi che ammazzavano tutti, mi buttai in fondo a un fosso e riuscii a tirarmi dietro anche mia moglie. Nascosti dentro all'acqua, li vedemmo passare vicino a noi, quasi ci toccavano Non ci videro, per fortuna nostra. Fosse stato cosi anche per mio padre e mio figlio. Dopo la liberazione tornai a Caprara per lavorare la mia vigna. Capitai sopra una mina, ce n'erano tante. Cosi adesso mi tiro dietro la gamba di legno".
Ancora sui delitti di Caprara, depone Roberto Carboni. Egli, fatto raro per un abitatore dell'acrocoro, non lamenta alcun famigliare caduto. "Verso le 10 del mattino si cominciarono a sentire gli spari in molte direzioni e per i monti si vedevano case in fiamme e grandi fumate nere. Nei precedenti rastrellamenti, i nazifascisti avevano sempre catturato solo gli uomini per deportarli o fucilarli, avevano anche bruciato case, ma rispettato le donne e i bambini. Perciò quella mattina, quando ci rendemmo conto della presenza dei nazifascisti, noi uomini validi decidemmo di nasconderci, ma per la sorte delle donne e dei bambini, pensammo di non doverci preoccupare. Quindi noi uomini corremmo nella macchia, perché tutti si sapeva che là i nazifascisti non sarebbero venuti, avevano una gran paura ad inoltrarsi tra le piante. Fin che ci furono nazifascisti nelle vicinanze, cioè per ben 5 giorni, rimasi nascosto. Quando finalmente tornai, mi si presentò la casa bruciata ed in parte crollata. Davanti a casa non c'era nessuno, ma come entrai in cucina, dopo essermi fatto strada tra le macerie, la trovai piena di cadaveri accatastati, erano 44, tutte donne e bambini, parte li conoscevo perché erano miei vicini, altri erano gente di Villa Ignano, Sperticano ed altri luoghi. Li avevano tutti ammucchiati in cucina, poi dalla porta che dava sulla strada, li avevano massacrati con la mitraglia e le bombe a mano. Impossibile scappare, perché di fuori stavano in agguato e chi provò fu ributtato dentro a colpi di fucile, come si capiva da alcuni cadaveri che facevano mucchio proprio sotto la finestra. A vedere quella quantità di morti, si capiva che doveva essere stata una cosa tremenda, per lo più erano uno sopra all'altro contro la parete di fronte all'uscita, segno che spingevano da quel lato nell'ultima disperata illusione di trovare scampo, di fuggire davanti alla canna della mitraglia che sparava dal vano della porta. Poi i nazifascisti avevano minato la casa che in parte era crollata sui cadaveri. C'erano bimbi e donne consumati dal fuoco, quando li raccogliemmo per seppellirli, le carni bruciate si sfacevano. Riuscimmo a seppellirli tutti in una grande buca". Sempre in quel giorno, Maria Collina perdette 4 figli, di cui il minore una bimba di soli 4 mesi.
"Io- ricorda piangendo la donna- cercai di far capire ad un nazista, che lì c'erano solo vecchi donne e bambini, ma lui mi cacciò
indietro dicendo: 'non importa niente!'".
Fabbri Medardo fu rastrellato e rinchiuso in una casa di Rovecchia. Dalla finestra assistette ad uno spettacolo agghiacciante. Tutti i componenti della famiglia che abitava nella casa, vennero messi in riga contro il muro della stalla. Un nazista, con una grossa pistola, li uccise uno per uno, bimbi compresi. A pochi metri, una cinquantina di commilitoni assistevano impassibili. Piangendo un bimbo si attacco alle gambe dei boia, questi se lo scrollo con un calcio e lo fini con un colpo al cranio.
A Casone di S. Martino in 18 perdono la vita: Mirka Parisini, incinta di 6 mesi, viene denudata e pugnalata nel ventre; poi le sparano due fucilate al petto; in un rifugio di S. Giovanni, 47 persone tra cui 12 bimbi e 2 suore cercano scampo. Trovarono tutti la morte più orrenda. Cadono la moglie e i 5 figli di Gherardo Fiori, i familiari di Mario Fiori, di Edoardo Castagnari, di Giuseppe Massa, di Pietro Paselli ed altri ancora Al bivio tra la chiesa e il cimitero di S Martino, i nazifascisti adoperano la benzina per distruggere i corpi di 52 persone massacrate dalla mitraglia.
Luccarini Gaetano è abbattuto e bruciato con la moglie e 6 figli, Angelo Lorenzini ha 13 morti, Augusto Casagrande 6; cadde anche la famiglia del Parroco Don Ubaldo Marchioni, tutti meno il vecchio padre.
"A me hanno massacrato 14 familiari", racconta Giuseppe Lorenzini. "La moglie e 2 figli, uno di 5 l'altro di 4 anni, li fucilarono il giorno 29 settembre a S. Giovanni, il giorno dopo a S. Martino furono assassinati dai nazifascisti mia madre, 3 sorelle, 3 cognate e 4 nipoti. Io, buttandomi dalla finestra, ero riuscito a rifugiarmi nel bosco. Dal bosco sentivo le grida della
gente di S. Giovanni. Sentivo anche le grida degli assassini, e ce n'erano che parlavano in dialetto emiliano, ma tutti avevano i vestiti delle SS. Il giorno dopo a S. Martino vidi di lontano un gruppo di gente, tutte donne e bambini, con un solo uomo in mezzo che girava con una gamba offesa, sparpagliarsi di corsa per i campi a branco, ma senza direzione precisa. Sentii dei colpi, poi i nazisti li circondarono e li riunirono. Fecero presto, ve lo dico io: picchiavano sulle dita e le unghie delle mani e dei piedi con i calci dei fucili. Li portarono proprio davanti alla porta della nostra casa, dove li fecero ammucchiare e li massacrarono tutti a raffiche di mitraglia. Poi, uno per uno, gli diedero un colpo di fucile alla nuca per sicurezza. Tornarono ad ammucchiarli perché nel morire s'erano un poco dispersi, spinsero sul posto un carro di fascine che rovesciarono sopra i morti, aggiustarono per bene le fascine, in modo da coprire tutti i cadaveri, fuori non spuntava neppure un piede, poi diedero fuoco.
Inutile dire che anche le case furono tutte bruciate. Della figlia di mio fratello, di 4 anni, non siamo mai più riusciti a ritrovare la testa. Non mi volli allontanare dalla zona senza prima aver dato sepoltura ai miei morti; sepoltura provvisoria, s'intende, così come si poteva. Mi unii con altri scampati, alcuni facevano la guardia nei punti più opportuni, perché i nazifascisti passavano e ripassavano sempre. Gli altri provvedevano alla sepoltura. Impiegammo 2 giorni a seppellirli tutti, e non dico quante volte anche noi corremmo il rischio di essere presi e massacrati. Spari e raffiche se ne sentivano ogni momento e il fumo degli incendi c'era sempre, vicino e lontano".
Paselli Duilio vive ora in una casa bianca, sopra un colle a fianco del ponte della ferrovia, nascosta da una macchia di grandi piante. E' la casa di un tempo, ricostruita nei muri, non ancora ammobiliata, salvo qualche tavolo e poche seggiole. Nelle stanze vuote, un po' buie per l'ombra delle piante, egli vaga solo, ricordando i suoi 10 familiari. "Il 25 settembre sfollammo da casa Beguzzi, troppo bassa e vicina al fiume e alla ferrovia, e riparammo a S. Martino, che pareva più sicuro. Il 29 mattino gli uomini scapparono tutti per timore di essere deportati. Infatti tutte le altre volte che i nazifascisti erano venuti in rastrellamento, sempre se l'erano presa con gli uomini giovani e validi e li avevano catturati e anche fucilati; mai avevano toccato le donne e i bambini.
Passò una prima squadra di nazisti, il giorno 29, e non fecero nulla; pensammo che anche questa volta ce la saremmo cavata solo con la paura. Invece il 30 arrivò una seconda squadra: presero tutti quelli che poterono, li misero contro la casa dei contadini del Parroco e li falciarono con le mitraglie. Poi li bruciarono con le fascine e con l'altra roba che avevano loro. Uno della famiglia Lorenzini di S.Martino, che aveva assistito al massacro, mi raccontò in seguito che, mentre erano chiusi nella Parrocchia, prima di essere massacrati, una mia figlia sposata, col suo bimbo al collo, nel vedere uccidere il marito sotto i suoi occhi, si scaglio contro i nazifascisti chiamandoli vigliacchi e assassini. Uno delle SS le rispose nel nostro dialetto; essendosi subito accorto che così si era tradito, fece segno agli altri e portarono tutti fuori al massacro, anche mia figlia col bambino in collo".
Aldo Gamberini racconta: "Noi venivamo dalla Cerreta di Montorio del Comune di Monzuno, sfollati a Cadotto. Il 29 Settembre mi alzai che ancora era buio e pioveva; mi allacciavo una scarpa nei pressi della stalla conversando con tre partigiani. Improvvisamente sentimmo delle urla dalla parte opposto della casa. I tre partigiani corsero ma si trovarono di fronte a una grande ondata di SS, li comandava uno basso e grosso che mi parve un capitano. Immediatamente i tre partigiani cominciarono a sparate, ma c'era troppa differenza di numero e dovettero retrocedere: sempre difendendosi presero la strada per il loro comando, io corsi a nascondermi in località Cà di Dorino, circa un km da Cadotto. Correndo per il campo mi spararono molte raffiche e colpi. Mentre fuggivo, a Cadotto cominciò un forte combattimento. Dalla posizione dove mi trovavo, non udivo nulla neppure gli spari della battaglia tra partigiani e SS, solo vedevo il fumo e il fuoco degli incendi. Dopo circa un'ora e mezza che ero nel fosso, sul sentiero per Cadotto, più in alto di fianco, vidi passare una colonna di civili, quasi tutti donne e bambini, andavano in fila, avevano con sé fagotti e valigie; sei SS, a mitra puntati incalzavano la fila e la tenevano unita. Guardai bene se c'erano i miei, ma non li vidi e mi sentii con più speranza. Pensai che li portavano in campo di concentramento. Dopo un'ora invece, tutto d'un colpo, mi arrivò un grande urlo, sembrava una voce sola, ma non sentii spari. Li avevano massacrati tutti sotto Pornarino. Proprio mentre passava la fila dei civili e delle SS mi sentii toccare ad una gamba: era Mascherino, il mio cane. Presi paura che abbaiando mi facesse scoprire e cercai in tasca il coltello che sempre avevo con me, per ucciderlo, ma non lo trovai.
Del resto non ce n'era bisogno perché Mascherino si accucciò ai miei piedi e più non si mosse. In seguito compresi che era corso a cercarmi dopo che avevano massacrato i miei.
Pioveva sempre, del combattimento verso Cadotto non si sentiva nulla, solo vedevo intorno per i monti e le valli bruciare le case le stalle e i fienili, sentivo anche i crolli delle case tra le fiamme, e le urla delle bestie legate alle mangiatoie. Ero combattuto tra il desiderio di correre dai miei e la paura di trovare una disgrazia. Passai cosi tutta la giornata. Verso le 10 di sera, con un buio che dovevo camminare a tasto coi piedi, arrivai a Rivabella di Cadotto dove trovai una donna che tirava acqua dal pozzo e che mi diede un pezzo di pane. A Cadotto non tornai più, in principio perché temevo la sorte dei miei, poi perché rimase tra le due linee, quella nazista e quella degli anglo-americani. Ci tornai solo dopo la Liberazione. Tornai a Cadotto nel maggio del 1945 a cercare i resti dei miei che ritrovai nel posto stesso dov'erano caduti, ricoperti da un po' di terra. Riconobbi mia moglie dalle scarpe e da una rebecca di lana che non s'era bruciata non so per quale caso; mia figlia maggiore la riconobbi per i denti d'oro, mio fratello per la pipa vicina alle ossa, i figli, perché di bambini c'erano solo i miei".  Tra Cadotto, Prunaro e Steccola, 145 sono gli assassinati e nel conto 40 bambini.
E il 29-30 settembre e 1 ottobre la serie di massacri non ha fine. Alla Canovetta di Villa Ignano cadono in 20. All'oratorio di Cerpiano ammucchiano 49 persone, di cui 19 bimbi e 25 donne. I bimbi son messi in fila contro il muro esterno e con promesse di cibo e danaro a lungo invitati e poi minacciati a dire quanto sapevano dei partigiani. I bimbi non parlano e vengono di nuovo scaraventati nell'interno dell'oratorio. Segue subito un primo lancio di bombe a mano che assassina 30 persone. Poi le SS decidono di riposare e a lungo gozzovigliano attorno all'oratorio. I lamenti di una ferita agonizzante li disturba: è la signora Nina Frabboni Fabbris di Bologna che un nazista s'affretta a finire. Emilia Tossani e il vecchio Pietro Orlandi con la nipote tentano la fuga; vanno poco oltre la soglia. I nazisti possono gozzovigliare tranquilli.
( tratto da "Marzabotto parla", Ed. Avanti!, 1955)
http://www.romacivica.net/anpiroma/DOSSIER/Dossier1b1.htm

 

 

 

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