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L'insostenibile leggerezza delle parole
Abu Yasin Merighi

Sarà poi vero che l'antica saggezza dei proverbi sopravvive alla polvere del tempo e passa indenne anche attraverso le più profonde trasformazioni sociali? Ad occhio e croce (altro modo di dire interessante) sembrerebbe di no, almeno in alcuni casi, come in quello del famosissimo motto latino Verba volant, scripta manent. Nonostante la logica formale di tale assunto sia ineccepibile, stringata e all'apparenza inattaccabile, anche tale ferrea certezza è inesorabilmente venuta meno, diluita nei meandri melmosi della cosiddetta scrittura digitale. Valeva finché scrivere costava sforzo e fatica, oltre a presupporre un senso di responsabilità civica che al giorno d'oggi stenta a trovar posto perfino tra gli antichi cimeli, valeva finché aveva un senso la parola data, la parola d'onore. Ma oggi, in un paese in cui le gabbane sono così colorate da non dover più nemmeno voltarle per restare in auge, perfino le parole son diventate una sorta di simulacro di convenzione sociale, una veste sdrucita da appendere al servo muto prima di coricarsi, una maschera tanto utile durante il giorno quanto insolita ed estranea sul far della notte. Anche le forme verbali han subito un'intelligente e per nulla casuale potatura, ed eliminando i casi obliqui del congiuntivo – strumento principe nella ricchezza del pensiero italico ( pensare senza i congiuntivi è un po' come giocare una partita a scacchi senza gli alfieri ) – si è ridotta, e di molto, la portata delle intuizioni più o meno formali che tanto hanno contribuito alla storia delle scienze umane.
Ed allora, nelle tristi e semibuie corsie degli ospedali della coscienza, la parola si ferma in accettazione e rinuncia alla sua accezione, un breve lampo di tristezza poi, in rapida successione, noia e monotonia succedono all'insuccesso di ciò che non succede più.
Laddove tutto cade, nulla più accade. Ma le parole son dure a morire, tanto coriacee da non voler tirar le cuoia. Ed allora sopravvivono, con dissimulata ironia, nella
tastiera di qualche remoto scrivano, magari schivo per natura e per necessità portato a schivar querele.
Facciamo qualche esempio a casaccio: prendiamo un noto esponente di una minoranza religiosa, magari monoteista ma non necessariamente sionista. Supponiamo che lavori nel campo dell'abbigliamento, vendendo vestiti. Verosimilmente, tra gli articoli che promuove, vi saranno anche delle splendide cravatte di seta, ma provate voi a dargli del “cravattaro”, anche scherzando; metti caso che appartenga alla nobile stirpe, sarebbe un po' come parlare di corda in casa dell'impiccato, di questi tempi un evidente reato. E allora si potrebbe dare del “magliaro” ad un noto giornalista, penosissimo arrivista, senonchè in un breve lasso la soddisfazione scema, essendo l'invito alla tenzone già in partenza declinato (naturalmente in accusativo).
Ed anche qui, che noia, che pena, star seduti sulla riva di un fiume a tirar palle di carta contro montagne di pattume.
Ma le parole, diversamente da chi le Usa, son dotate di memoria propria, tanto da fornirci un intermezzo divertente: il Grande Satana, alla deriva, evidentemente, che dà del Diavolo a un levantino presidente.
E questo è niente, se si pensa che un eurodeputato postcomunista dà dell'infiltrato ad uno scrittore cattolico antisionista; un infiltrato al nostro interno, una talpa. Ma le talpe scavano, anche se ogni tanto riemergono; e allora qual è il problema, dov'è la questione. Sull'undici/nove tutti cercano le prove, chi nel cielo, chi sotto terra. L'oro che c'era non c'è più, ha fatto bum (lo sanno perfino nell'isola del rum); e allora meglio crearsi il proprio giocattolino, e guai a chi glielo tocca (è mio, è mio)..
Ma l'undici/nove non è di nessuno, non è più nemmeno di chi lo ha pensato, tanto era facile farlo con due o tre taglierini e un po' di bicarbonato…
E allora che dire, e con quali parole: se quelle di Montale erano solamente sillabe storte e secche come un ramo, cosa aspettiamo a gettare le nostre direttamente nella stufa o nel camino?
Non siamo forse noi, come i pesci intrappolati nelle reti dei mari, lontani e dispersi nell'enorme mare della rete?
In fondo, per chi ancora di verità ha sete, per chi ancora nelle parole ripone fiducia, di una sola è certo non andrà perso né il peso né il valore: ed è quella, immensa, del nostro Creatore.6 novembre 2007
Abu Yasin Merighi
 
 
 
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