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COLOMBIA NEL CAOS, INGRID PIÙ SOLA
Maurizio Chierici
Tristi notizie per Ingrid Betancourt mai così sola nella prigione verde adesso che il paese è sull'orlo del caos. Una crisi istituzionale drammatizza l'insicurezza della donna da candidare al premio Nobel per la Pace, anche perché il suo governo non sopporta la libertà di un'idealista mentre gli scandali travolgono i vertici dello stato. La Corte Penale Suprema ha raccolto la confessione della senatrice Ydis Medina: accusa il presidente Uribe di aver comperato quel suo voto decisivo che ha permesso di modificare la costituzione consentendo una seconda elezione fino a quel momento proibita. E la possibilità di tramare per il terzo mandato: i pretoriani lo stanno preparando. La Medina ha precisato soldi e incarichi riscossi per cambiare idea. Quando si dice che l'Italia non è la Colombia si dice il vero. A Bogotà nessun lodo Schifani. Nessun soccorso trasversale tra governo e opposizione. Medina colpevole, quindi Medina condannata a 43 mesi, arresti domiciliari. Esclusa per sempre da ogni incarico pubblico. Senato addio. Il tribunale ha trasmesso la decisione alla corte costituzionale e alla procura generale della repubblica suggerendo di annullare la riconferma di Uribe alla presidenza. Pericolo di destituzione. Ma il governo "usurpato" si scatena con una furia che noi conosciamo bene. A mezzanotte Uribe si affaccia in Tv. Lancia l'appello al paese. Sono minacciato dalle manovre del terrorismo comunistiche, disperato perché in agonia. Gli dà fiato una giustizia "ingiusta, distratta e selettiva; politicizzata e indifferente alla catastrofe che la decisione potrebbe aprire". E poi contraccuse pesanti: i magistrati che allungano ombre sulla sua politica "coraggiosa e trasparente", sarebbero legati ai narcos, quindi nemici della legalità. I misteri dei computer paramilitari sequestrati e spariti e poi riapparsi con rivelazioni che assolvono il governo, restano le risorse alle quali si aggrappa il presidente. Annuncia un referendum da ultima spiaggia: come Mugabe chiederà ai colombiani di confermarlo nella poltrona. Volontà del popolo, volontà di Dio. Il dio dei paramilitari mai davvero disarmati; dio dell'esercito di un governo sull'orlo del golpe; dio delle Tv e dei giornali sotto tutela come negli anni bui della storia colombiana. Al voto, al voto; i problemi possono aspettare. Devono aver pazienza i quattro milioni di profughi dispersi nelle baracche attorno alle città: hanno perso case e lavoro nei gironi della guerra civile. Possono aspettare i prigionieri Farc chiusi nei deliri della foresta. Nessuna mediazione è ormai possibile. Lo scontro si annuncia senza pietà nel caso le urne vengano riaperte. Sui magistrati piovo infamie ufficiali. Eccoli mentre abbraccino Salvatore Mancuso, comandante dei paras estradato nelle carceri Usa appena si è messo a raccontare con quale terrore ha imposto l'elezione dei senatori e deputati di Uribe: trenta in galera, settanta sotto sospetto. Insomma, chi cerca la verità non può passarla liscia. I cugini Santos – vice presidente e ministro della difesa – scatenano il Tiempo grande quotidiano di proprietà. E Correa, presidente dell'Ecuador, congela definitivamente i rapporti con la Colombia fino a quando l'Uribe che ha attraversato con azione di guerra la sua frontiera, continuerà a guidare il paese. Ingrid e gli altri ostaggi sempre più soli nella foresta. Il tempo delle attese sta forse scadendo.
Dopo sei anni e quattro mesi di medioevo Farc e di furbizie dell'uomo forte, parlare di urgenza per Ingrid e per gli altri prigionieri sembra un paradosso, ma la tragedia temuta si sta avvicinando. Pretendere dai guerriglieri della non speranza un esame di coscienza può essere utopia, ma approfondire con analisi realistica la situazione è il dovere che ogni mediatore internazionale deve rapidamente attivare. L'urgenza di accelerare il cammino di Ingrid verso il Nobel al momento sembra l'ultima possibilità per strappare alle trame del governo Uribe e al cinismo dei carcerieri il potere di giocare con la pelle degli ostaggi. L'appello universale può ancora sovrastare gli espedienti di chi galleggia nella storia. Galleggia lontano ma galleggia anche attorno a noi. La nostra proposta di mobilitare la speranza per salvare una donna di pace, sta raccogliendo migliaia di consensi. In un certo senso ne siamo travolti: dai premi Nobel a deputati, senatori, consigli regionali e ragazzi che scrivono da ogni parte d'Europa. Intellettuali e gente qualsiasi raccolgono adesioni fra i compagni di lavoro rovesciandole sulle pagine dell'Unità ma anche nei siti che allargano la proposta attraverso le vene di internet. Tutti riscoprono la buona volontà che sembrava intorpidita, eppure resiste un mistero. Possibile che l'ambasciatore della Colombia a Roma non si sia fatto vivo, almeno un biglietto a Yolanda, madre di Ingrid, o a Melanie, figlia scesa a Firenze per ritirare il premio Galileo attribuito a Ingrid incatenata? Possibile non abbia praticato il garbo diplomatico di una parola, solo un grazie alle migliaia di persone che provano a salvare col Nobel la senatrice più votata dai colombiani? Non so se può essere una spiegazione, ma la confessione della signora dagli intrighi mercenari e ben retribuiti, decisivi nella rielezione di Uribe, coinvolge l'ex ministro degli interni, Sabas Prepelt. Allontanato per evitare la vergogna, eccolo a Roma, feluca da ambasciatore silenzioso. Ma la feluca non basta a salvarlo. L'alta Corte di Bogotà ha chiesto alla procura generale di aprire un'inchiesta sulle sue manovre delittuose. Accuse, risposte, avvocati e i loro cavilli mentre Ingrid e gli altri sembrano per sempre dimenticati.
Continua il dolore che ha accompagnato il novecento dell'America Latina. Chi non è d'accordo con l'arroganza sparisce. A Buenos Aires, trent'anni fa, le madri di Piazza di Maggio sfidavano la dittatura nella speranza di salvare i figli rapiti. Girotondi silenziosi, fazzoletto bianc o, foto dei ragazzi che non tornavano. Nessuno si muoveva davvero per dare una mano; il silenzio della Chiesa era un silenzio pesante. Quando i giornalisti stranieri provavano a raccontare l'angoscia che i militari nascondevano sotto il mondiale di calcio, minacce ed espulsioni. Difficile per tutti soprattutto per noi italiani: sul "Corriere della Sera" impossibile far sapere. Non capivamo perché; più tardi abbiamo capito: la loggia massonica P2 di Licio Gelli, Ortolani, tanti altri con Berlusconi e Cicchitto, imponeva l'esaltazione delle alte uniformi e il silenzio sui delitti. Guai parlare della generazione sparita. Il "Corriere" nelle mani P2 orchestrava la mistificazione. Hanno vinto le madri, ma quale sofferenza. Nel tempo sono diventate le nonne di piazza di Maggio: cercano i figli dei figli, venuti al mondo nelle carceri segrete e affidati a genitori adottivi in divisa mentre i genitori di sangue morivano sotto tortura. Per due volte candidate al Nobel per la Pace, per due volte non considerate, le nonne e le famiglie di piazza di Maggio stanno tentando l'ultima occasione concessa dal regolamentodel premio. Trent'anni dopo esaltare la memoria da salvare per non dimenticare sarebbe un riconoscimento dovuto, ma trent'anni dopo la storia è passata: le vite che allora era possibile riscattare illuminandone il dramma col Nobel, sono ormai perdute. Ecco perché è necessario non perdere l'ultima occasione delle madri e delle nonne unendo al loro impegno che non disarma, l'urgenza di chi può essere restituito alla vita. Madri del passato, Ingrid dei nostri giorni: la storia dell'America Latina si raccoglie nel dolore che continua. Nobel da dividere come è stato diviso tra Arafat e Rabin; Nobel che rilancia l'illusione dello scrittore argentino Ernesto Sabato: nunca mas. Mai più desaparecidos, mai più rapimenti, mai più silenzi. Invece tutto ritorna con protagonisti che – se non proprio gli stessi – continuano a somigliarsi. Conservando la memoria delle madri e delle nonne argentine, affrettiamoci ad illuminare Ingrid e gli altri ostaggi mai così in pericolo. Risvegliarci fra trent'anni sarebbe solo ipocrisia.


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La cortesia dell' Unità

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