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LETTERA 138 - tratto da "Il Dialogo"
gennaio 2009
Gli aquiloni di Gaza
di Ettore Masina
Vi sono momenti in cui la storia e il vangelo si incrociano e pare si confermino a vicenda. Il 28 dicembre di ogni anno la Chiesa rilegge la pagina del Nuovo Testamento in cui si racconta della strage di bambini di Betlemme ordinata da Erode. La Chiesa definisce quei piccoli con il nome di Santi Martiri Innocenti. In realtà si tratta di un racconto midrashico, cioè simbolico: nessun testo storico registra un avvenimento del genere nella Palestina di quel tempo. Adesso questo avvenimento e il nome che lo descrive sono diventati realtà: proprio a partire dagli ultimi giorni del dicembre scorso e proprio in Palestina, decine e decine di bambini vengono uccisi, non da sgherri assatanati ma da un esercito fra i più potenti della Terra con generali, bandiere, ferrea disciplina, minuziosi piani di battaglia.
Perché Santi e Martiri quei bambini di Betlemme coetanei del Signore? La liturgia risponde con una formula che a me pare stupenda: martiri e dunque santi perché non loquendo sed moriendo confessi sunt, perché non con parole ma con la morte hanno testimoniato il Cristo. Così, una volta di più, la riflessione evangelica coglie il nesso intimo fra il Salvatore e i più poveri dei poveri: il loro destino, la loro storia ignorata dai libri, persino la storia effimera (di pochi giorni, mesi o anni) dei piccini uccisi dalla violenza degli adulti sono storia sacra, inscritta nel mistero della croce. Qualcuno mi ha detto tempo fa che nelle icone ortodosse dell’Epifania la culla di Gesù bambino ha la forma di una bara. (Ma le notizie che arrivano da Gaza mentre scrivo, il 6 gennaio, dicono che la popolazione non riesce più a seppellire i suoi morti).
Non con le parole ma con la morte testimoniano la realtà tutti i piccoli schiantati dalla nostra follìa o dalla nostra inerzia. Siano i bambini violati dai “turisti del sesso” o quelli schiacciati dalle fatiche di certi lavori “minorili”, le creaturine vietnamite che nascono deformi a causa dei defolianti disseminati dagli americani durante la guerra; o siano i ragazzini-soldati di certe aree africane o quelli uccisi, mutilati o psichicamente straziati dai conflitti, come i piccoli afghani e congolesi e sudanesi, quelli israeliani assassinati dai terroristi o, adesso, quelli massacrati dall’esercito israeliano, le vittime infantili del nostro tempo testimoniano che il male distende le sue ali di tenebra in tutte le epoche e i luoghi, e può insediarsi nel cuore di ogni uomo. I bambini violati e uccisi accompagnano con le loro ombre il nostro cammino e vanificano con i loro lamenti o i loro insanguinati silenzi la nostra pretesa di essere autori di una civiltà sempre più “umana”: giusta, cioè, libera, generosa. E tenera.
Credo fermamente che nessuno di noi possa “chiamarsi fuori” da queste realtà planetarie, che legami più o meno visibili ci saldino ai mali del nostro tempo e che non sia possibile uscire dalla nostra inevitabile condizione di carnefici (o, almeno, di favoreggiatori di carnefici) se non cercando di cogliere in tutta la sua valenza le nostre responsabilità. Credo, cioè, che innanzi tutto il nostro dovere non sia soltanto di piangere le piccole vittime ma di conoscere le condizioni storiche che le hanno crocifisse, per vedere se non sia possibile da parte nostra qualche intervento per un mutamento della realtà. Senza questa ricerca di informazioni è come se ci rifiutassimo di vedere il volto di quei bambini, di conoscerne il nome, di ascoltarne il lamento. Questa mancanza di informazioni emerge più che mai, oggi, davanti a Gaza. Mi sembra terribile: su un dramma planetario che da più di sessant’anni insanguina una Terra santa a tre religioni monoteiste, dunque a miliardi di persone, la gente ha idee confuse o addirittura non ne ha.
Gaza, la strage di tanti bambini (e dei loro genitori), la nostra pretesa di neutralità o addirittura la nostra compassione pesata al bilancino per l’una e l’altra parte in lotta, sono infatti una tragedia alimentata dalla disinformazione o dalla manipolazione dell’informazione. Se i palestinesi, i loro diritti violati, la libertà che gli viene negata sono così spesso ignorati da noi, cioè condannati, da mezzo secolo, all’insignificanza, è perché l’opinione pubblica internazionale è stata fortemente condizionata dalla propaganda israeliana. È ovviamente impossibile esaminare dettagliatamente come e perché, ma chi, come me, segue con attenzione, da cinquant’anni la vicenda medio-orientale sa bene che è un discorso necessario per uscire da una situazione di profonda ingiustizia: e che si possono porre, al riguardo, alcune considerazioni incontrovertibili. Bisogna cominciare da lontano: dopo la prima guerra mondiale, che aveva disgregato l’impero ottomano, le cosiddette Grandi Potenze ridisegnarono a loro piacimento, con sprezzante cinismo, la carta geopolitica dell’area. Con tutta la violenza dell’ideologia colonialista, considerarono primitivi e indegni di piena libertà i popoli arabi: imposero loro monarchi feudali o regimi corrotti, servili nei confronti di Londra e di Parigi. Fu in quel tempo che si cominciò a progettare, su pressione del movimento sionista, dei suoi amici altolocati e della vergogna dei pogrom europei, uno stato ebraico da erigere nelle antiche terre dei Patriarchi e dei Profeti. Subito dopo la seconda guerra mondiale, il progetto fu tradotto in realtà. Fu la realizzazione di un sogno per gli ebrei, ma una terribile sciagura per gli arabi che abitavano da secoli la Palestina. Su di loro si abbatté come un maglio la cattiva coscienza dell’Europa e degli Stati Uniti per non avere efficacemente impedito il genocidio ebraico: il nuovo stato fu insediato non già in una regione semi-deserta (“Una terra senza popolo per un popolo senza terra”) come sosteneva la propaganda sionista, ma in una zona popolosa, in cui esistevano condizioni di vita superiori a quelle di certi “cantoni neri” europei. Grandi masse di arabi furono costrette all’esodo dalle terre in cui erano nate, erano nati i loro padri e i padri dei padri dei padri. Per affrettare la fondazione del nuovo Israele, alla crescente opposizione palestinese si contrappose un feroce terrorismo sionista: la strage della popolazione del villaggio di Deir Yazzin (trucidati 250 uomini, donne, vecchi e bambini), la distruzione di un’ala dell’hotel King David, a Gerusalemme (91 morti), l’assassinio del mediatore delle Nazioni Unite, Folke Bernadotte… Non pochi degli autori di questi atti di terrorismo entrarono poi a far parte dei governi del nuovo Stato. Che io ricordi, non vi furono efficaci censure morali da parte dei politici o dei mass-media occidentali. Sembrò allora a molti (anche a me, debbo dire) che questi “partigiani” riscattassero con l’ardimento di molte loro imprese l’inerme rassegnazione con la quale milioni di ebrei europei erano andati al macello nei lager. E sembrò a moltissimi (e sembra ancora) che l’incomparabile gravità della Shoah concedesse ai superstiti una specie di salvacondotto che permettesse loro qualunque crudeltà. Questa legittimazione alla violenza venne sostenuta con enorme efficacia dai mass-media vicini alla (o posseduti dalla) ricca diaspora ebraica negli Stati Uniti: ricordo ancora con quanta emozione vidi film come “Exodus” di Preminger, lessi romanzi come “Ladri nella notte” di Koestler. Anche a me, come a moltissimi cittadini dell’Occidente, la fondazione dello stato di Israele, la guerra del 1948 apparvero l’ultima grande epopea del XX secolo.
A questa “copertura” mediatica non potevano certo rispondere i palestinesi: alcuni “contenuti” in stati non loro (come la Giordania), altri divenuti profughi di precaria sopravvivenza, altri ancora rimasti minoranza priva di qualunque potere politico nel nuovo stato ebraico. Così, quasi per una reazione spontanea, l’opinione pubblica occidentale introiettò la convinzione, tipicamente razzista, che il nuovo Stato ( non pochi cittadini del quale e molti sostenitori all’estero appartenevano – o erano collegati - all’intellighentzia occidentale), fosse un caposaldo della civiltà “bianca” nel Medio Oriente, di fronte a un nazionalismo arabo straccione e feudale.
Le guerre dei regimi arabi contro lo Stato ebraico rinforzarono questa supremazia mediatica: i farneticanti proclami del loro odio, la loro incapacità di promuovere l’idea di uno stato pluralista e laico anziché di due stati creati con drammatici spostamenti della popolazione locale, rinsaldarono nell’opinione pubblica internazionale l’immagine di un piccolo Israele permanentemente minacciato da una enorme valanga di nemici e dunque costretto a un duro esercizio della forza. Ben pochi si accorsero, nel passare degli anni, che questa immagine era sempre meno autentica perché non teneva conto dei crescenti aiuti e garanzie prestati dagli Stati Uniti allo stato ebraico, tali da creare ormai una realtà inattaccabile dai suoi vicini: uno stato che possiede il quinto esercito della Terra per potenza di fuoco e un rilevante armamento nucleare Chi ha indicato questa evidente realtà, sostenendo che, ormai garantita la sicurezza di Israele, era giunto il momento di chiedergli un maggiore e sincero assenso a una pace che garantisse giustizia ai palestinesi, è stato sempre messo a tacere con l’accusa di antiebraismo: vorresti forse una nuova Shoah? Tre generazioni di israeliani si sono ormai succedute dalla fondazione del nuovo Stato, accade persino che i nonagenari scampati al genocidio lamentino che il “loro” governo lesini aiuti alla loro vecchiaia, la caratteristica di Israele come “stato-rifugio” per gli ebrei in diaspora è ormai una romantica illusione, ma l’accusa di antigiudaismo viene ancora rivolta a chi critica i governanti di Israele. Qualche volta l’accusa è di “antisemitismo”: i filo-israeliani meno colti non sanno neppure che anche i palestinesi sono semiti.
Le sconfitte arabe hanno consegnato a Israele, di fatto, l’intera area destinata, secondo gli illusori progetti dell’ONU, a uno stato palestinese. Questo avvenimento epocale ha stravolto gli stessi fondamenti ideali dello stato ebraico. Nella sua dichiarazione di Indipendenza stava scritto: “Lo Stato di Israele si  dedicherà allo sviluppo di questo paese per il bene di tutti i suoi cittadini; sarà  fondato  sui principi di libertà, giustizia e pace, e sarà guidato dalla visione dei profeti di Israele; garantirà pieni e eguali diritti, sociali e politici, a tutti i suoi  cittadini, indipendentemente dalle differenze  di religione, di razza o di sesso; tutelerà  la libertà di religione, di coscienza, di lingua, di istruzione e di cultura”. Di fatto, invece, Israele, quasi sospinta da un vento malvagio, si è trasformata in una potenza brutalmente coloniale che opprime con continue violazioni dei diritti umani un popolo in crescente disperazione. Centinaia di risoluzioni dell’ONU contro questi eccessi sono finiti nei cestini della carta straccia premurosamente forniti dagli Stati Uniti, grazie al loro potere di veto. Hanno vita durissima i pacifisti israeliani, coraggiosi, creativi, incessanti costruttori di ponti fra i due popoli che il cinismo dei governanti distrugge demolendo ogni speranza di pace. Nello stato ebraico sono presenti, distruttivamente, forze politiche che sognano di costringere gli arabi a un esodo definitivo dalla loro terra, altre, più numerose, che premono per la costruzione di un regime permanente di apartheid affidato all’esercito perché lo indurisca di quando in quando affinché i palestinesi “non creino problemi “, altre ancora disponibili alla creazione di uno stato arabo ma a pelle di leopardo: bantustan collegati fra loro da esili corridoi. Queste forze eversive si sono sempre schierate (esplicitamente o sotterraneamente) contro ogni piano di pace. Certamente, al riguardo, non mancano responsabilità palestinesi. Vergognosamente traditi dai paesi arabi, condizionati da una frammentazione della loro dirigenza politica, continuamente provocati dall’esercito israeliano, gli abitanti dei territori occupati hanno commesso anche loro profondi errori di valutazione e di azione.
Quarant’anni di dominio militare con l’uso di punizioni collettive (le case abbattute, i blocchi stradali che per giorni e giorni isolano villaggi e città, impedendo il transito persino alle autoambulanze), la diffusione dell’uso della tortura, l’imprigionamento di ragazzi, la chiusura delle scuole, la devastazione degli uliveti, l’erezione di un muro che taglia paesi e li separa dai campi, il sequestro di terre per i villaggi dei coloni armati, hanno avvelenato l’anima dei due popoli. Da un lato (quello palestinese) la ferocia di un terrorismo che per essere segno di disperazione non è meno criminale, oppure una rassegnazione che spinge all’inerzia, la corruzione di buona parte della dirigenza politica, un crescente fondamentalismo religioso. Dall’altro lato (quello israeliano) l’uso della paura e dei raid come strumento elettorale, una cultura violentemente razzista e nazionalista, la convinzione che gli arabi siano del tutto inaffidabili e persone senza dignità. I grandi scrittori di Israele (gli Yehoshua, i Grossman, gli Oz….) registrano con dolore questo scadimento etico, che si estende al trattamento dei cittadini arabo-israeliani. Spesso il comportamento delle truppe di occupazione è tanto crudele che quando, ai tempi della prima Intifada, Yitzchak Rabin suggerì ai soldati di non sparare contro i ragazzi palestinesi che lanciavano pietre ma di spaccare loro le braccia, egli fu considerato una “colomba”, un buono e persino un “molle”.
Gli psicologi israeliani denunziano l’insorgenza di nevrosi collettive. Vi sono segni di insensibilità crescente. Eccone uno, di oggi: “Piombo fuso” è un giocattolo donato ai bambini israeliani nella recente festa di Hanukkah. I generali hanno dato questo nome (Operazione Piombo fuso) ai piani dell’offensiva contro Gaza. I generali sanno bene che metà della popolazione di Gaza ha meno di 15 anni… E sanno che Gaza e la Striscia, con 2500 persone per chilometro quadrato, sono la più popolosa area della Terra. Bombardarla dal cielo e dal mare, come si sta facendo, o invaderla per combattere casa per casa significa mettere in atto un macello che ricorda certe imprese naziste.
Scrivo queste cose non per esecrare il popolo di Israele, al quale auguro invece di tutto cuore di diventare propulsore di pace e di benessere, ma perché sono convinto che molti non le sappiano, e che, invece, la diffusione della verità sia la strada necessaria alla giustizia. Ma interessa la verità ai mass-media italiani? Voglio raccontare un episodio al riguardo. Nel 1991 ero presidente del Comitato della Camera per i diritti umani. L’agenzia dell’ONU per i profughi mi invitò a portare una delegazione di parlamentari in visita ai campi in cui si accalcavano decine di migliaia di palestinesi. Fu un’esperienza drammatica: vedemmo un popolo che ci sembrò allo stremo, angariato da anni in mille modi, portato al furore da una congerie di leggi, decreti, bandi militari che ne impedivano ogni crescita e libertà. Ricordo come questa mancanza di diritto fosse evidente a Gaza, immensa metropoli di poverissima gente. Gli occupanti vi applicavano leggi israeliane, egiziane e persino del mandato britannico… Tornati a Roma presentammo la nostra relazione al presidente della Commissione Esteri, Flaminio Piccoli. Egli rilevò che nonostante la diversità politica (la delegazione “andava” da Democrazia Proletaria al MSI), il documento era unitario e la documentazione era importante. Decise di convocare una conferenza stampa. I giornalisti accreditati a Montecitorio sono più di 300. Non uno (non uno, avete capito bene) venne ad ascoltarci.
Milioni e milioni di italiani (la grande maggioranza) hanno come esclusiva fonte di informazione il TG1. Da anni questa testata affida il notiziario sull’area medio-orientale a un giornalista, Claudio Pagliara, che è certamente assai meno obiettivo dei giornalisti israeliani. Per esempio, continua a ripetere che l’offensiva israeliana è dovuta al fatto che Hamas aveva rotto la tregua stabilita con Israele. In realtà Hamas ha deciso di non rinnovare la tregua scaduta, motivando questa decisione con l’inasprimento del blocco alla Striscia e il bombardamento del 4 novembre, che ha causato la morte di 6 miliziani. In questo modo – ha scritto la stampa israeliana - si è “innescato un nuovo ciclo di pericolosa, anche se controllata, violenza, caratterizzata da occasionali colpi ed incursioni da parte di Israele e da corrispondenti lanci di razzi e spari da parte palestinese” (Daniel Levy, Haaretz, 19 dicembre”).
Tzahal, l’esercito israeliano, non consente ai giornalisti di entrare nella Striscia e dunque le notizie che ci arrivano dai luoghi della battaglia sono tutto fuorché obiettive; ad aumentare questo squilibrio, il giornalista del TG1 è prodigo di servizi sui danni che i razzi di Hamas procurano ad alcune città israeliane. Ora questi lanci sono un’iniziativa criminale ma non sono, purtroppo, una prerogativa di Hamas. Pagliara ha sempre taciuto che da anni – e anche durante i tentativi di trattative di pace – Tzahal lancia missili sui territori occupati, dichiarando che si tratta di “esecuzioni a distanza” di supposti criminali. Questi missili hanno provocato ormai centinaia e centinaia di “danni collaterali” palestinesi. I missili sono intrinsecamente diversi dai razzi?
Tanto meno il giornalista italiano ha espresso i dubbi dei suoi colleghi israeliani sulle reali ragioni dell’attacco a Gaza. Per esempio: "Fonti dell'establishment della Difesa hanno dichiarato che il ministro della difesa Ehud Barak ha ordinato alle Forze Aeree Israeliane di prepararsi per l'operazione più di sei mesi fa, anche mentre Israele iniziava a negoziare un accordo per il cessate il fuoco con Hamas". (Barak Ravid, Operation "Cast Lead": Israeli Air Force strike followed months of planning, Haaretz, 27 dicembre 2008).
Infine l’inviato del TG1 non si è mai dilungato sulle sofferenze inflitte alla popolazione di Gaza dall’assedio israeliano sottolineate da altri suoi colleghi: “L’assedio di Gaza ha distrutto per un’intera generazione la possibilità di vivere una vita degna di essere vissuta” (Tom Seghev, Haaretz 29 dicembre 2008); e anche “Mancano l’acqua, l’elettricità, i medicinali e il personale sanitario è spesso costretto alla drammatica scelta di quali feriti curare e quali abbandonare a se stessi, (New York Times, 1 gennaio 2009).
Concludo questo tragico cammino per le strade insanguinate della Palestina e di Israele facendo mie le parole con le quali Pietro Ingrao ha commentato la strage in atto a Gaza: “Sono convinto che non è con quella violenza iniqua che Israele può tutelare il suo domani. Anzi credo, temo che con questa aggressione infausta essa seminerà nuovo alimento per gli estremisti disperati di Hamas”. Nel 1991 io credetti di vedere nascere nei campi profughi una nuova leva di kamikaze. Ricordo gli occhi di un quindicenne a Deishah mentre mi raccontava del pianto disperato di una sua sorellina quando, a un chek-point un soldato le aveva sventrato una bambola, convinto che in essa si celasse dell’esplosivo. A Gaza ci sono più di 750 mila bambini. Ricordo con il cuore che piange gli aquiloni che essi levavano in mezzo al fango dell’inverno in cui li vidi e che mi sembrarono speranze levate verso il cielo. Quanto odio sta fermentando nel cuore di quei piccini, accanto alla paura? Non solo le lacrime degli orfani ma anche il rancore muto, e forse ancor più desolato, degli orfani “psicologici”: quelli che si sentono traditi da un padre che sembra non sapere, non volere difenderli, lui stesso terrorizzato, affamato. Che ricco raccolto per gli estremisti, per la violenza del loro odio che a un bambino può sembrare forza. I sedicenti amici di Israele non lo capiscono?
La pace è una bambina che corre verso un rifugio in cui sentirsi finalmente al sicuro. Palestinese o israeliana, che importa? Il suo grido dovrebbe strapparci alla nostra inerzia, che forse non è tale ma disperata sensazione di inutilità. Ma non dobbiamo cedere al pessimismo della ragione. Come cittadini, come cristiani (quelli di noi che osano dirsi tali) dobbiamo trovare modi per far sentire ai nostri governanti che la loro prudenza ci sembra viltà. Nella triste decadenza dei partiti la nostra solidarietà deve trovare nuove forme. Internet ne offre e non dobbiamo ritenerle troppo piccole, troppo deboli. Tra il poco e il nulla c’è un abisso.
Ai diplomatici Benedetto XVI ha detto che per vincere “l’inaudita violenza” dell’attacco a Gaza è forse necessario un ricambio generazionale dei governi, dunque un grande coraggio. Io ricordo quello di Paolo VI che, per riportare lo sguardo della Chiesa sul mistero del Cristo, non si lasciò fermare dalla situazione militare della Terra Santa, ma sfidò la prudenza dei diplomatici annunziando con semplicità che lui sarebbe comunque partito. Davanti a lui, almeno per qualche ora, si aprì una meravigliosa strada che io ricordo di avere percorso con Eugenio Montale: era un viottolo che zigzagava fra crateri di bombe nella no men’s land, la terra di nessuno fra la Gerusalemme della Legione Araba e quella di Tzahal. Per qualche ora la Città Santa tornò una, la Bella dei Profeti, del Vangelo e del Corano.
E però noi non possiamo richiedere coraggio soltanto ai governanti. Decine di riservisti israeliani in questo momento si stanno trasformando in refuznik, obiettori di coscienza, che per questo saranno incarcerati. Non vogliamo assomigliargli almeno un poco? Davvero ci terrorizza la probabilità di essere definiti “amici di Hamas”?

Ettore Masina
Il Muro del nord della Cisgiordania
Nei fatti, non si tratta di una semplice «recinzione» o di un semplice «muro», ma di un dispositivo che comporta, da una parte e dall'altra, una zona di sicurezza larga dai 30 ai 100 metri, sotto stretta sorveglianza (barriere elettrificate, trincee, telecamere, pattuglie...)
Il modello è stato realizzato dal quotidiano britannico The Guardian.


1 Torre di osservazione munita di radar e ospitante soldati muniti di equipaggiamento per la visione notturna.

2 Telecamera a infrarossi; completata da una sorveglianza video costante da palloni frenati e aerei senza pilota. Tutte le informazioni sono inviate in tempo reale verso un posto di comando.

3 Rotoli di filo spinato affilato («razor wire») di 1 metro e 80 di altezza.

4 Strada asfaltata per i movimenti delle truppe. Fra la strada e il filo spinato, una pista di sabbia permette di conservare le tracce di chiunque tenti di avvicinarsi.

5 Recinzione metallica alta 3 metri, munita di sensori.

6 Lungo le sezioni considerate da Israele come « ad alto rischio », la recinzione è rimpiazzata da un muro di cemento alto 8 metri.

7 Strada per i veicoli di pattuglia.

8 Fossato profondo due metri per impedire il passaggio dei veicoli palestinesi.

9 Rotoli di filo spinato affilato e sensori al suolo per individuare ogni movi
mento prima che venga raggiunta la recinzione.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
A Qalqiliya, il muro di cemento è alto 8 metri.

 

 

 

 

 
 
Rotoli di filo spinato
Come appare chiaramente dalla foto in dettaglio, non si tratta di filo spinato ordinario, ma di filo munito di lame taglienti come rasoi

 

 

 

 

Sterminio di Gaza: lavori in corso
11/01/2009
Il mio articolo per Il Manifesto di oggi: Alcune famiglie di palestinesi ci hanno consegnato dei volantini, piovuti dal cielo nei giorni scorsi, lasciati cadere dall'aereonautica israeliana in alternativa alle bombe. Volantino n.1, tradotto dall'arabo:  "A tutte le persone residenti in quest'area. A causa delle azioni terroristiche con cui i terroristi presenti nella vostra area stanno aggredendo Israele, le Forze di Difesa Israeliane sono state costrette a reagire immediatamente e ad agire in questo modo nelle vostre zone. Vi esortiamo, per la vostra sicurezza, ad evacuare immediatamente quest'area. Forze di Difesa Israeliane". In pratica l'esercito israeliano sta passando di casa in case appiccicando sugli usci un avviso di  "lavori in corso", prima di radere al suolo interi quartieri, affossare per sempre speranze di vita presente e futura. Seppellire sotto tonnellate di macerie chi non ha un posto dove evacuare. Poco fa ci hanno comunicato il lancio di nuovi volantini, avvisano che «la terza fase della guerra al terrorismo sta per iniziare".  Sono cortesi i vertici militari israeliani, chiedono collaborazione alla popolazione di Gaza, prima di schiacciarli come insetti. Se i volantini non sono abbastanza persuasivi, ci pensa l'aereonautica a bussare dolcemente sui tetti delle case di Gaza. E' una nuova prassi degli ultimi giorni, piovono bombe un pochino più leggere, abbastanza per scoperchiare i tetti delle abitazioni e invitare gli abitanti all'evacuazione. Dopo due o tre minuti l'aviazione ripassa e non rimane più niente dell'edificio. Evacuare, ma evacuare dove? Non ci sono posti al sicuro lungo su tutta la Striscia, io personalmente temo di più per la mia vita sopra un'ambulanza, o passando di fianco ad una moschea o una scuola,  che dinnanzi ad uno dei palazzi governativa ancora in piedi. Ieri notte a 20 metri da casa mia, i caccia israeliani hanno tirato giù la stazione dei pompieri. Sulla strada parallela al porto ho scoperto stamane dei crateri profondi diversi metri come se fossero piovuti meteoriti in un film di fantascienza. La differenza è che qui gli effetti speciali fanno parecchio male. Girando per i corridoi dell'ospedale Al Shifa, affollati di feriti in attesa di cure, è possibile imbattersi in un dottore dai tratti somatici non propriamente arabi, è  Mads Gilbert, medico norvegese dell'organizzazione non governativa Norwac. Gilbert, anestesista, conferma il sospetto di armi proibite utilizzate da Israele sui civili di Gaza: "molti feriti arrivano con amputazioni estreme, con entrambe le gambe spappolate, che io sospetto siano provate da armi Dime". Questo mentre Navi Pillay, Alto commissario dell'Onu per i diritti umani, denuncia "gravissime violazioni che possono costituire crimini di guerra".  L'ultimo di questi crimini poche ore fa, a Est di Jabalia, una famiglia che si apprestava a evacuare, si stava rifornendo di scorte alimentari in uno dei piccoli negozi ancora aperti, bombardato. 8 vittime, tutte appartenenti alla stessa famiglia, quella di Abed Rabbu, 10 feriti gravi. Fra le persone che incontro per strada l'impressione è quella che Israele abbia deciso di prendersela con calma, le bombe cadono costantemente e le forze di terra avanzano lentamente. I soldati non hanno problemi nel procacciarsi razioni k, le razioni alimentari militari, a differenza  della gente di Gaza che non trova più il pane. I panettieri,  esaurite le scorte di farina, hanno iniziato a mescolarla con quella animale per sfornare le pagnotte. Oppure ci si ciba di quello che qui chiamano pane-penicillina. E' pane ammuffito, avanzi di produzioni vecchie di settimane, verde di muffa. Lo si mette su un piccolo fuoco ricavato da un paio di ceppi di legno, vi assicuro che non è proprio una prelibatezza. Israele continua a diffondere, specie via internet, immagini riprese dal cielo che dimostrerebbero come i suoi attacchi sono precisi e mirati a "terroristi" o ipotetici magazzini di scorte di armi ed esplosivo. L'altissimo conto di vittime civili, bastano da sole a smentire questi video. Mi chiedo come Israele  possa definirsi civile e democratico, se per  stanare e uccidere un suo nemico nasco sto in un edificio popolato, il suo esercito non esitano un attimo ad abbatterlo seppellendoci sotto decine di innocenti. Rifletteteci un attimo, sarebbe come se l'esercito italiano per catturare un pericoloso boss mafioso, iniziasse a bombardare pesantemente il centro di Palermo. Sono 821 i morti palestinesi nel momento in cui scrivo, 93 le donne ammazzate, 235 i bambini. 12 i paramedici uccisi nell'adempimento del loro dovere, 3 i giornalisti morti con la macchina fotografica appesa al collo. Ben 3350 i feriti,  più della metà sono minori di diciotto anni. Secondo il centro Mezan per i diritti umani, noto per la sua attendibilità, sono l'85% delle vittime totali i civili palestinesi massacrati  in due settimane.  Il computo delle vittime civile israeliane, fortunatamente, è fermo a quota 4 . Se Le Nazioni Unite non riescono a proteggere la popolazione civile palestinese dalle massicce violazioni di Israele agli obblighi umanitari internazionali, ci proveranno i miei amici del Free Gaza Movement, pronti a sbarcare a Gaza fra un paio di giorni. Sono dottori, infermieri e attivisti per i diritti umani, che ritengono loro preciso dovere morale fare quello è possibile per fornire qualche misura di protezione. Ci avevano già provato ad arrivare martedì 31 dicembre sulla Dignity. La marina israeliana aveva speronato la nostra barca, in acque internazionali, tentando di affondarla, successivamente aveva parlato di "incidente". Attenderò i miei amici con il loro carico di aiuti umanitari fra le macerie di quel che resta del porto, e voglio sperare che non si ripetano altri "incidenti" in alto mare. Il secondo volantino piovuto dal cielo che abbiamo tradotto è una vera chicca (è possibile trovare le foto di entrambi i volantini sul sito http://guerrillaradio.iobloggo.com/ ): "Ai cittadini di Gaza. Prendetevi la responsabilità del vostro destino! A Gaza i terroristi e coloro che lanciano i razzi contro Israele rappresentano una minaccia per le vostre vite e per quelle delle vostre famiglie. Se desiderate aiutare la vostra famiglia e i vostri fratelli che si trovano a Gaza, tutto quello che dovete fare è chiamare il numero indicato di seguito e darci informazioni riguardo alle posizioni in cui si trovano i responsabili dei lanci dei razzi e le milizie terroriste che fanno di voi le prime vittime delle loro azioni. Evitare che vengano commesse atrocità è ora vostra responsabilità! Non esitate!.. E' garantita la più totale discrezione. Potete contattarci al seguente numero: 02-5839749. Oppure scriverci a questo indirizzo di posta elettronica per comunicarci qualunque informazione abbiate riguardo a qualsiasi attività terroristica:  helpgaza2008@gmail.com  ". Molti mi scrivete dall'Italia avvinti dalla frustrazione di non potere fare nulla dinnanzi a questo genocidio in corso. Vi invito a continuare a manifestare la vostra indignazione e a tifare per i diritti umani. Se poi avete 5 minuti  di tempo e un gettone telefonico da spendere, i riferimenti contenuti nell'ultimo velatino potrebbero tornarvi utili per comunicare il vostro pensiero a chi per via area, marina, terrestre, decide cinicamente sul destino di un milione e mezzo di persone. Mai gettone fu speso meglio, quei 235 bambini massacrati ve lo chiedono. Restiamo umani. Vik

 

Vittorio Arrigoni:
A Gaza hanno ucciso Ippocrate
10/01/2009

 

Il mio articolo per Il Manifesto di oggi : A Gaza, un plotone di esecuzione ha messo al muro Ippocrate, ha puntato e fatto fuoco . Le allucinanti dichiarazioni di un portavoce dei servizi segreti israeliani secondo cui l'esercito ha ottenuto via libera a sparare sulle ambulanze perché a bordo presenti presunti membri della resistenza palestinese, danno il quadro di che valore dà alla vita Israele in questi giorni, le vite dei nemici, s'intende. Vale la pena ripassare cosa dichiara il giuramento di Ippocrate, a cui è tenuto ogni medico prima di iniziare a esercitare la professione, in particolare questi passi:  "Consapevole dell'importanza e della solennità dell'atto che compio e dell'impegno che assumo, giuro: di esercitare la medicina in libertà e indipendenza di giudizio e di comportamento;  di curare tutti i miei pazienti con eguale scrupolo e impegno indipendentemente dai sentimenti che essi mi ispirano e prescindendo da ogni differenza di razza, religione, nazionalità, condizione sociale e ideologia politica". Sono sette fra i dottori e infermieri volontari i camici bianchi uccisi dall'inizio della campagna di bombardamenti, una decina le ambulanze colpite dall'artiglieria israeliana. I sopravvissuti tremano di paura, ma non si tirano indietro. I lampeggianti cremisi delle ambulanze sono gli unici squarci di luce lungo le strade nelle notti oscure di Gaza, esclusi i lampi che precedono le esplosioni. Riguardo a questi crimini, l'ultima denuncia è partita da Pierre Wettach, capo della Croce Rossa a Gaza;  le sue ambulanze sono potute accorrere sul luogo di un massacro, a  Zaiton, est di Gaza city, solo dopo 24 ore dall'attacco israeliano. I soccorritori dichiarano di essersi trovati dinnanzi uno scenario raccapricciante: "quattro bambini piccoli vicini ai corpi senza vita delle loro madri in una delle case. Erano troppo deboli per tenersi in piedi.  E' stato trovato vivo anche un uomo, anche lui troppo debole per tenersi in piedi. In tutto sui materassi giacevano 12 corpi". I testimoni di questa ennesima carneficina raccontano come i soldati israeliani, penetrati nel quartiere, hanno radunato le decine di membri della famiglia Al Samouni in un solo edificio e  poi lo hanno ripetutamente bombardato. Con i miei compagni dell'ISM sono giorni che giriamo sulle ambulanze della mezzaluna rossa, abbiamo subito molteplici attacchi e perso un caro amico, Arafa, colpito in pieno da un colpo di obice sparato da un carro armato. Altri tre paramedici nostri amici rimangono ricoverati negli ospedali dove fino a ieri lavoravano. Sulle ambulanze il nostro dovere è raccogliere feriti, non accogliere a bordo guerriglieri. E quando troviamo riverso per strada un uomo ridotto una poltiglia di sangue, non si ha il tempo di controllare i suoi documenti, chiedergli se parteggia per hamas o fatah. Anche perchè quasi sempre i feriti non rispondono, come i morti. Alcuni giorni fa caricando un ferito grave ha cercato contemporaneamente di salire sull'ambulanza anche un altro uomo, ferito in maniera lieve. Lo abbiamo spintonato fuori, proprio perché sia chiaro a chi ci spia dal cielo che non fungiamo da taxi per il trasporto di membri della resistenza, bensì accogliamo sopra le nostre ambulanze solo feriti gravi, il cui rifornimento da parte di Israele non cessa un istante. La notte scorsa è arrivata all'ospedale Al Quds di Gaza City Miriam, 17 anni, in preda alle doglie. Al mattino erano passati nello stesso ospedale suo padre e sua cognata, entrambi cadaveri, vittime di uno dei tanti bombardamenti indiscriminati. Durante la notte Miriam a partorito un bel bimbo, inconsapevole del fatto che mentre lei si trovava in salo parto, un piano più in basso, all'obitorio era giunto anche il giovane marito. Alla fine persino le Nazioni Unite si sono accorte che qui a Gaza siamo come tutti immersi nello stesso catino, bersagli mobili per ogni cecchino. Siamo arrivati a quota 789 vittime, 3300 i feriti, 410 vertono in situazione critica, 230 i bambini uccisi, decine e decine i dispersi. Il computo delle vittime civile israeliane, fortunatamente, è fermo a quota 4. Per bocca di John Ging capo dell'Unrwa (Agenzia Onu per i rifugiati palestinesi), le Nazioni Unite hanno annunciato di sospendere le loro attività umanitarie lungo la Striscia. Ho incrociato Ging negli uffici dell'agenzia di stampa Ramattan, e l'ho visto sdegnato agitare il suo indice accusatorio contro Israele dinnanzi alle telecamere. L'ONU cessa le sua attività a Gaza dopo che due dei suoi operatori sono stati uccisi ieri, beffa vuole durante le tre ore di una tregua che Israele ha annunciato e al suo solito non rispetta. "I civili di Gaza hanno a disposizione 3 ore al giorno per cercare di sopravvivere, i soldati israeliani le restanti 21 per cercare di sterminarli" ho sentito Ging dichiarare a due passi da me. Da Gerusalemme mi scrive Yasmine, moglie di uno dei numerosi giornalisti in fila al valico di Erez, giornalisti ai quali  per chissà perchè Israele non concede il lasciapassare per venire qui a filmare e a raccontare l'immane catastrofe innaturale che da tredici giorni ha colpito. Queste le sue parole: "L'altro ieri sono andata a vedere Gaza dal di fuori. I giornalisti del mondo sono tutti ammucchiati su una collinetta di sabbia a un paio di km dal confine. Decine di telecamere che puntano verso di voi. Aeri che ci sorvolano, si sentono ma non si vedono,  sembrano solo illusioni mentali finché non si vede il fumo nero salire all' orizzonte, Gaza.  La collina e' diventata anche meta turistica per gli Israeliani di zona. Con grandi binocoli e macchine fotografiche vengono a vedere i bombardamenti dal vivo." Mentre sto trascrivendo in fretta e furia questa mia corrispondenza una bomba cade nel palazzo a fianco a quello in cui mi trovo. I vetri tremano, le orecchie dolgono, mi affaccio dalla finestre e vedo che hanno colpito l'edificio dove sono raccolti i principali media arabi. E' uno dei palazzi più alti di tutta Gaza city, l'Al Jaawhara building. Sul tetto tengono fissi una troupe con una telecamera, li vedo ora contorcersi tutti a terra, agitare le braccia invocando aiuto, avvolti da una cappa nera di fumo. Paramedici e giornalisti, le professioni più eroiche in questo spicchio di mondo. All'ospedale Al Shifa ieri sono andato a trovare Tamim, reporter sopravvissuto ad un bombardamento aereo. Mi ha spiegato come secondo lui Israele sta adottando le stesse identiche tecniche terroristiche di Al Al-Qaeda, bombarda un edificio, attende l'arrivo dei giornalisti e dei soccorsi, quindi fa cadere un'altra bomba che fa strage di quest'ultimi. Per questo motivo a suo avviso si sono registrate molte vittime fra i paramedici e i reporters, gli infermieri attorno al suo letto facevano cenni di consenso. Tamim mi ha mostrando sorridendo, i suoi moncherini. Ha perso le gambe, ma è felice d' essersela cavata, il suo collega  Mohammed è morto con in mano la macchina fotografica, la secondo esplosione lo ha ucciso. Nel frattempo mi sono informato sulla bomba appena caduta nel palazzo qui vicino, sono rimasti feriti due giornalisti, entrambi palestinesi, uno di Libyan tv l'altro di Dubai tv. Giusto un altro sonoro avvertimento da chi esige che questo massacro di vittime civili non venga in alcun modo raccontato. Non mi resta che augurarmi che nel quartier generale dei vertici militari israeliani non si legga Il Manifesto, ne vi siano affezionati visitatori del mio blog. Restiamo umani. Vik

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