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Assoc. Medica Disturbi di Relazione

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SUL CONCETTO DI “AIUTO”

Dott. Arianna Carena

L'iniziativa promossa dall'associazione NADIR in Burundi, e portata avanti da Luisa Barbieri e Paolo Mongiorgi, ha inaspettatamente suscitato diverse critiche.

“Ma cosa ci vanno a fare in Burundi?”, Questa frase ha scioccato un po' tutti, tant'è che proprio in questo numero della rivista ben tre articoli parlano di questa benedetta frase che, prima della partenza di Paolo e Luisa, circolava più o meno silenziosa, nei corridoi dell'associazione, suscitando reazioni per lo più rabbiose e indignate. Ma cosa implica veramente questa frase? Come mai ci irrita così tanto sentirla? E soprattutto perché a qualcuno è venuto in mente un simile quesito a proposito di due che partono come missionari?

La fatidica frase irrita per due motivi: presuppone, senza esprimerlo chiaramente, un giudizio di merito su un'iniziativa giudicata non necessaria: “Con tutto quello che c'è da fare qui e con tutte le persone che soffrono in casa nostra qual è la necessità di andare ad occuparsi dei disperati burundesi!”, e insinua che ci sia un certo compiacimento da parte di chi ha deciso di partire: “Guarda questi due arrivisti come sono soddisfatti di se stessi e del loro nuovo ruolo di eroi internazionali!”

Questa reazione nei confronti di chi fa volontariato è straordinariamente frequente e, a parer mio, esprime una visione completamente distorta del concetto di “AIUTO”.

Il termine “aiutare” implica il concetto di sacrificio: colui che aiuta non solo deve essere disinteressato ma è anche bene che ricavi un certo quantitativo di sofferenza dall'aiuto che porta, altrimenti non è valido. Se si ricava un senso di gratificazione e compiacimento dall'aiutare, il valore dell' aiuto ne viene automaticamente snaturato.

Trovo tale concetto deleterio per due motivi: innanzitutto risulta inibitorio per chi intende intraprendere una qualunque attività di volontariato: “Ma perché ho scelto proprio questo settore e non un altro, dove magari sono più necessario/a” e, per di più, pone chi riceve assistenza in una posizione di assoluta passività (chi ha necessità di essere aiutato non può in alcun modo contribuire al benessere e all'equilibrio di chi aiuta). Perché! A parer mio qualunque relazione di “aiuto” implica uno scambio, una comunicazione, tanto che nella relazione che si crea non è più così semplice individuare chi aiuta e chi è aiutato.

La necessità di contribuire al comune benessere è, fortunatamente, un'intuizione innata in ciascuno di noi e deriva da un bisogno preciso: essere un po' più di noi stessi,sentirci parte di qual cosa che vada al di la di noi per provare a raddrizzare almeno una delle innumerevoli cose che vanno storte sul nostro pianeta.

Un bisogno, dunque, e ogni volta che un bisogno viene soddisfatto è inevitabile un senso di benessere e soddisfazione.

E ben venga questa soddisfazione! Proprio grazie ad essa combattiamo quel senso di impotenza e apatia che accompagna ingiustizie, torti e soprusi spesso così grandi da inibire qualunque iniziativa di contrasto.

Smettiamola dunque di dibatterci in questi cervellotici contenziosi; riconosciamo a noi stessi il bisogno e il piacere di dare e ricevere aiuto, l'associazione nasce e vive in funzione di questo scambio continuo.

Lasciamo che ciascuno scelga serenamente il tipo di volontariato che più trova congeniale: non è il Burundi? Sono i senza tetto della stazione, gli anziani che vivono soli, i malati terminali, i portatori di handicap o semplicemente fare presenza in via Decumana …benissimo! Rimbocchiamoci le mani ed evitiamo di ricordarci in continuazione dove NON arriviamo, è più utile invece, per noi e per gli altri, soffermarci su dove siamo.

Un famoso detto dice “è più semplice trovare un amico disposto ad aiutarti che un amico disposto a chiederti aiuto”: ringraziamo dunque che ci sia ancora chi ci chiede aiuto, consentendo a noi di migliorarci e ringraziamo anche che qualcuno sia in grado di ascoltare questa ricerca di aiuto e abbia il coraggio di mettere in atto ciò che è necessario per rispondervi.

La casa dei volontari di Mivo

 

 

 

 

 

 

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